“Stare almeno ad un metro di distanza” è diventata la parola d’ordine, quando esclusivamente per motivi di lavoro, o per andare a far la spesa, ci si imbatte negli altri. Per quanto giustificata, tale misura di sicurezza, appare innaturale ai nostri occhi. Gli esseri umani, infatti, amano il contatto. E il desiderio dell’incontro, dell’abbraccio, dell’unione stanno inscritti profondamente nel nostro essere.
Eppure, a pensarci, noi non siamo soltanto unione, ma anche il frutto di un distacco. Non è fuoriuscendo dal seno materno che ci si affaccia alla vita? E non è il taglio del cordone ombelicale il segno di una nuova identità distinta dalla madre? Stando così le cose, la distanza ‘obbligatoria’ di questi giorni, per quanto innaturale, ci aiuta a riscoprire tre cose.
La prima è che una certa distanza serve a non assorbire o a non farsi assorbire dall’altro; insomma a rispettare gli altri nella loro inevitabile differenza, anche quando si tratta di figli o del coniuge.
La seconda è che le distanze qualche volta avvicinano e le vicinanze allontanano. Se si vuol salvare la libertà e, perfino, l’amore non basta solo unione né solo distanza, ma ci vogliono l’una e l’altra, ben miscelate.
Infine, anche nella fede cristiana la tensione unitiva che culmina nella comunione al corpo e al sangue del Signore convive con la sistematica differenza tra l’uomo e Dio, permanendo uno scarto tra quello che l’uomo percepisce di Dio e quello che Lui è.
Concludo, con un invito semplice: «Chi non sa star da solo si guardi dallo stare insieme agli altri E viceversa: chi non sa stare con gli altri, eviti di starsene da solo». (cfr. D. Bonhoeffer, Vita comune, Brescia, 2003, 59-60).