Omelia della XXV domenica del tempo ordinario (B)

Sap 2, 12-20; Gc 3,16-4,3; Mc 9, 30-37
23-09-2018

«Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo». Così ragionano tra sé gli empi, secondo il libro della Sapienza. Per quanto il bene non faccia notizia, sempre aizza contro di sé il male. Infatti c’è sempre qualcuno che si irrita e te la fa pagare perché il giusto mette in discussione gli empi che non sopportano si possa vivere in modo diverso.

La figura del giusto perseguitato dagli empi ci proietta nell’episodio evangelico, dove Gesù rivela ciò che lo attende. Dice apertamente: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. Ma a parole così consapevoli fa riscontro la totale incomprensione dei suoi. Non vogliono ascoltare certe cose perché nel frattempo stanno discutendo su chi è il più grande. Come spiegare una reazione così gretta e meschina? In realtà, la reazione dei discepoli è quella che sempre prende l’uomo di fronte allo spauracchio del fallimento. E così per paura di morire si finisce per aver paura di vivere. Perché, ad esempio, certe volte invecchiare significa peggiorare nel carattere e nello stile personali? Perché certi ‘trasalimenti’ da insospettabili cinquantenni/sessantenni che mandano tutto a scatafascio nella famiglia per inseguire una nuova storia? Perché la spregiudicatezza che non guarda in faccia a nessuno, pur di arraffare e depredare? Perché l’incoscienza di certi adolescenti che finiscono per suicidarsi, pur di uscire dall’anonimato?

Gesù non replica stizzito o incompreso. Si limita a compiere un gesto, collocando al centro un bambino che abbraccia per poi affermare: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Non si vince la paura di essere insignificante sgomitando e prevaricando, ma accogliendo e servendo. Allora si capisce finalmente perché «se uno vuol essere il primo sia l’ultimo e il servitore di tutti». L’antidoto al male di vivere non è rinchiudersi in se stessi. A X Factor ha colpito la performance di una promettente pop star, Martina Attili, 16 anni. ‘Cherofobia’ (cioè paura della felicità) è la sua malattia che descrive così “E cerco ogni forma di dolore mischiata dal sangue col sudore, e sento il respiro che manca e sento l’ansia che avanza, fatemi uscire da questa benedetta stanza”. L’implorazione del dolore è calmierata da una preghiera: “Ma tu resta”. Più che idolatrare il dolore, farsi circondare da esso, conta questo grido: “Ma tu resta!” Che è un modo per dire che bisogna uscire dalla propria stanza e lasciarsi stanare dai bisogni degli ultimi. Questi vengono prima anche dei nostri malesseri che ci impediscono di credere alla felicità.