Terremoto: scuola di solidarietà

Spoleto, palestra del Sacro Cuore. Triduo in onore di san Ponziano
12-01-2017

0. Il terremoto è una sconfitta che educa

Ero a Lourdes nella notte tra il 23 e il 24 agosto. Ero arrivato poche ore prima. Al pomeriggio avevo recitato il rosario alla grotta e dopo cena avevo partecipato alla processione aux flambeaux. Ricordo che prima di addormentarmi pensavo che all’indomani avrei avuto una giornata di tregua per ripartire all’indomani. Mai avrei immaginato che mi aspettava la giornata più lunga della mia vita! Alle 4.00 squilla il telefonino. Un prete del mio paese mi chiede: «Come stai?». «Veramente dormivo», rispondo. E poi mi dice della scossa che ha coinvolto Rieti. Vado su corriere.it e trovo niente. Poi accendo la tv e su rainews 24 sento Pirozzi, il Sindaco di Amatrice, che dice che non c’è più. Non so più cosa succede.
Comincio a chiamare i parroci. Mi risponde sia don Savino che don Fabio. Non risponde don Luigi. Alle 6 mi attivo per prenotare un biglietto per far ritorno a casa. Alle 7 mi chiama il papa. Alle 9 parto da Lourdes direzione Tolosa. Alle 12 il volo, alle 14 Roma, alle 16 Amatrice. Un pensiero mi tormentava: «Che cosa potrò fare? E soprattutto cosa dire ai sopravvissuti?». Ero in ansia per una situazione che aveva cambiato di colpo prospettive, priorità, urgenze.
La prima persona che ho incontrato è stata Valerio. Da circa un mese faceva il fornaio ad Amatrice dove si era trasferito con la moglie e i suoi due figli. Non lo conoscevo. Mi si accosta. Lo abbraccio. Cento metri e dietro un angolo scorgo dei sacchi con dentro delle persone morte. Valerio mi si avvicina e mi dice: «Questa è mia moglie e questo mio figlio e la piccolina». Non ho detto nulla. Mi sono abbracciato Valerio e abbiamo pianto. La solidarietà che sprigiona il terremoto sta in questo azzeramento delle distanze e dei pregiudizi. Pensavo a che cosa avrei dovuto fare o dire, ma le persone e le situazioni ti vengono incontro. E basta non ritrarsi che ti investono.
La solidarietà nasce così semplicemente. Basta non distrarsi. E così è capitato prima di me ai tanti che stando più vicini erano sul posto già alle prime luci dell’alba. Mi riferisco alla polizia stradale, ai vigili del fuoco, ma anche a tanti che si sono mossi per andare in soccorso di vite umane che sono state tratte in salvo nelle prime ore. D’improvviso tutto acquista un altro ordine e ci si sente coinvolti. C’è stata gente che ha scavato per ore a mani nude. E non si è accorta di nulla. Salvo crollare il giorno dopo. Non è solo questione di adrenalina. È qualcosa di più coinvolgente che ti attraversa per intero e ti fa andare in una sola direzione. Quella delle urla della gente disperata. Anche se in qualche momento vorresti che fosse solo un brutto sogno.
La solidarietà nasce da questo urlo nel silenzio che ti trafigge e ti riporta alla tua dimensione di uomo, piccolo ed indifeso, di fronte all’enormità della vita.

Tornano alla mente le parole di due autori contemporanei che mettono il dito nella piaga di una società che fuori dal terremoto sembra cavalcare altre sensibilità. Scrive Pessoa nel suo libro sull’inquietudine: «Nella vita di oggi il mondo appartiene soltanto agli stupidi, agli insensibili, e agli esagitati. Il diritto a vivere e a trionfare oggi con cui si conquista il ricovero in manicomio: l’incapacità di pensare, l’immoralità, l’ipereccitazione».

Gli fa il verso Pier Paolo Pasolini: «Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare. A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. È un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco”.

1. Il terremoto capovolge le case e i rapporti tra le persone

Don Luciano Avenati, parroco di sant’Eutizio ha detto davanti al papa: «Siamo cresciuti nelle relazioni umane e fraterne; sono avvenute alcune riconciliazioni; in una parola abbiamo perso le case ma siamo diventati una grande famiglia. E in questi giorni di Natale ci siamo detti più volte che non dobbiamo sentirlo come il più brutto della nostra vita, ma forse il più vero, quello che ci fa sentire più vicini a Gesù che è nato fuori casa (e noi siamo fuori casa), e che ha piantato la tenda in mezzo a noi (e noi siamo stati e in parte siamo ancora nelle tende). Siamo terremotati nel corpo ma non nell’anima». E una coppia di Amatrice aveva detto ancor prima a Francesco di: «Sostenerci con la preghiera affinché ricostruiamo i cuori ancor prima delle case».

Penso anch’io che la solidarietà mette al primo posto i cuori rispetto alle case. Sappiamo che la casa è una priorità. Insieme al lavoro e alla scuola. E aggiungo alla chiesa, come luogo di incontro. Ma tutto riparte dai cuori. Diversamente manca quel ‘quid’ che consente di superare il freddo e la tristezza di questi mesi che ci attendono. Lo stesso Errani parlando ai giovani del Meeting sabato scorso diceva con franchezza: «il terremoto non introduce semplicemente danni materiali, ma anche una sorta faglia emotiva. Il terremoto è una brutta bestia che fa paura, non sai darti una risposta sul tema “quando finirà”, e soprattutto mette in discussione il tuo rapporto con la comunità, la tua identità, il tuo percorso personale e sociale».

2. Il terremoto costringe a ritrovare il noi in mezzo alle macerie dell’io

Si tratta allora di ricucire questa “faglia emotiva”. E forse le parole sono vane di fronte a quello che è accaduto. Cosa si potrebbe del resto dire a chi ha perso la sua intera famiglia sotto le macerie? Eppure ci spetta il compito di consolare, di essere accanto e ascoltare, di offrire una spalla su cui piangere. E insieme bisogna sperare che con il tempo quanti hanno visto crollare i muri portanti della propria vita riescano a rimettersi in cammino. L’essere Chiesa ci chiama a farci vicini, ad accompagnare questo processo di elaborazione. In questo ci aiuta la consapevolezza di come questa scossa così drammatica ci riguarda tutti. Occorre una identificazione: solo così non ci creiamo alibi per sottrarci e la nostra non sarà soltanto una emozione temporanea. Nella realtà terribile del terremoto c’è da riscoprire quella che è la nostra condizione di uomini e di donne, segnati dalla fragilità e dall’imprevisto da quello che non avresti mai immaginato. Dai grandi colpi della vita si impara sempre qualcosa di utile: ci costringono ad andare oltre la superficialità che spesso ci caratterizza. È vero sotto il profilo spirituale e religioso, come per quello sociale ed economico. Oggi tendiamo sempre più a pensare che una società desiderabile sia quella composta da individui perfettamente liberi perché perfettamente indipendenti. Alle nostre orecchie la parola “dipendenza” ha una connotazione negativa, e non senza ragione. Occorre allora una nuova chiave di lettura che permetta di uscire da un’alternativa sterile tra dipendenza e indipendenza. Dobbiamo tornare a riconoscere che dell’altro abbiamo bisogno, che siamo “interdipendenti”. Ce lo ricorda il nostro ombelico: una cicatrice che ci sottrae all’idea del self made man, che ci ricorda in ogni istante che non vengono prima gli individui e poi le relazioni, ma che ciascuno di noi è il prodotto di relazioni.

3. La politica come arte del bene comune

Diceva don Lorenzo Milani che «il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Alle terre devastate del centro Italia la politica, le istituzioni, hanno promesso che questi luoghi torneranno a vivere come e meglio di prima. Ma quest’opera di ricostruzione nasce innanzitutto dalle relazioni tra gli uomini. E da ultimo è affidata agli uomini, che dovranno tradurre questo impegno ancora troppo astratto senza lasciarsi fuorviare da altri interessi.

Perché la politica sia la forma più alta di carità è necessario che le nostre mani non restino inerti o nostalgiche. Ci vuole l’energia e la voglia di ricostruire insieme. Soltanto così il soffio vitale che c’è in ognuno di noi tornerà a far risplendere il sole. Ciò che conta è riscoprire la solidarietà non come l’emozione di un momento, ma come un impegno anche strutturale che metta mano a quelle priorità che per troppo tempo sono state sottaciute da chi aveva la responsabilità di far uscire dal loro isolamento alcuni territori come quelli devastati dal terremoto.

Per questo torna opportuna una definizione sintetica della parola solidarietà coniata da Giovanni Paolo II e poi costantemente ripresa dai suoi successori. Questa: “La solidarietà non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti” (Sollicitudo Rei Socialis, 38).

4. «Le ferite guariranno, ma le cicatrici restano».

Mi avvio a conclusione, prendendo spunto da papa Francesco e dalle sue parole nell’udienza ai terremotati dello scorso 5 gennaio. Esse esprimono bene il compito che ci attende. Intanto va sottolineato il metodo. Il papa si è messo in ascolto ed ha evitato il sermone. Ha dato spazio al contatto con tutti prima e dopo l’appuntamento. E ha rimarcato tre parole: il cuore, le mani, le ferite con le cicatrici.
Il cuore prima della casa suggerisce che si tratta di mettere mano alla elaborazione del dolore e del disorientamento, senza fretta, esercitando una grande pazienza verso se stessi. Voglio esemplificare con un piccolo lavoro fatto dalla nostra diocesi per ricostruire le biografie e le relazioni delle vittime del terremoto, congelate nel momento in cui la terra ha tremato: Questa semplice pubblicazione, intitolata ‘Gocce di memoria’ che traccia il profilo breve di ciascuna delle 299 vittime ci ha fatto scoprire quanto grande sia il dolore, quanto esteso il dramma che bisogna insieme attraversare.

Le mani dicono della necessità di procedere speditamente nel lavoro senza incertezze, inciuci, equivoci o collusioni. Occorre una gestione accorta per evitare infiltrazioni e speculazioni. È necessaria una serie di attenzioni che privilegiano la ripresa dell’economia per territori come i miei almeno già segnati dallo spopolamento. Per invertire la tendenza è necessario uno studio attento di quello che è il nostro territorio per rigenerarlo, pena la sua dissoluzione.

Infine le ferite e le cicatrici ci dicono dure cose: si può curare la ferita ma resta una cicatrice che nessuno può togliere. Questo invita a realismo e a speranza. Non si creda di fare il passo troppo in fretta e si sappia convivere con questa esperienza dolorosa. Che non deve trascinarci nella disperazione, ma fari assaporare ancor più la fragilità e l’imprevedibilità dell’esistenza. Abbiamo costruito un mondo di sicurezze artefatte, ma la vita resta per definizione un rischio. E chi vuole imbellettarla, fatica poi a viverla nel concreto. Siamo diventati più asciutti, ma forse più veri. Il Natale alle spalle forse non è stato il più bello, neanche il più brutto. Forse il più vero però.