«Sulle tracce del Risorto» (3)

Lectio divina del vescovo con i giovani. Rieti, chiesa di Santa Chiara (Gv 10, 27-30)
15-04-2016

Premessa.

Vorrei fare una breve nota sulla preghiera e il corpo. È abbastanza ovvio che il corpo è il nostro luogo inevitabile, ciò attraverso cui tutto passa. Non possiamo vivere mettendo tra parentesi la nostra fisicità. Anche la preghiera non fa eccezione e deve tener conto del corpo e delle sue leggi. Non perché la preghiera sia una posizione del corpo, ma perché questa la facilita o la ostacola. Dobbiamo partire dal fatto che il corpo influenza ogni atto umano, dunque, anche la preghiera.

Non a caso siamo soliti distinguere tre ambiti dell’umano. Innanzitutto la nostra fisicità materiale: il corpo. Poi il mondo dei nostri pensieri, idee, speculazioni: la mente. Infine l’area delle nostre passioni, emozioni, sentimenti, affetti: lo spirito.

La preghiera intende integrare i diversi ambiti, ma ci riesce solo se cominciamo a dare spazio alla nostra fisicità. Si prega col corpo anzitutto.

Una volta si pregava sempre in ginocchio. Oggi solo in piedi. È povera sia l’una che l’altra forma, perché la preghiera deve poter assumere tutte le posizioni: stare in piedi, in ginocchio, seduti; con le mani aperte o chiuse, alzate o raccolte, con gli occhi aperti o socchiusi.

Nella nostra tradizione occidentale un po’ cerebrale si tende a una povertà di espressione che è l’esatto contrario di ciò che avviene in altre culture, come quella africana, dove la danza fa parte integrante del rito. Da dove cominciare? Da quello che è l’anello di congiunzione tra corpo e spirito, che è il respiro. Infatti come sostiene un maestro orientale: «Il respiro è il tuo più grande amico: concentrandoti su di esso sarai sempre in grado di rilassarti perfettamente e di spegnere in te ogni tensione». Concentrarsi sul respiro, dunque, produce in noi un profondo raccoglimento. È una tecnica che usavano i Padri del deserto e che dobbiamo riscoprire. Non c’è bisogno per forza di ricorrere alle tecniche yoga oggi così in voga, anche perché non naturali e piuttosto complicate. Si tratta di regolare la respirazione per favorire la concentrazione.

Tre suggerimenti di base:

  • ascoltare il proprio respiro. Vuol dire, in concreto, scacciare tutti i pensieri che distraggono, chiedendosi nel frattempo: “A che cosa sto pensando? Che emozioni mi provoca questo pensiero?”.
  • evitare posizioni troppo scomode ma anche troppo comode.
  • favorire inspirazione ed espirazione in modo alternato, accompagnando questo processo con una parola-chiave: Gesù mio, Padre mio…

Agostino ci aiuta a cogliere la direzione giusta della preghiera, che farà seguito alla lectio e alla meditatio. Scrive: «Di solito la preghiera si fa più coi gemiti che con le parole, più con le lacrime che con le formule» (Lettera a Proba).

Lectio

Contesto

I 4 versetti oggetto della nostra lettura orante sono dentro il capitolo 10 di Giovanni, che ha al suo centro la figura del pastore buono, anzi del pastore bello; secondo qualcun altro invece del pastore vero. Bisogna entrare nella parabola utilizzata da Gesù per cogliere il valore della parola “pastore”, che ai nostri giorni è priva di mordente, perché rimanda ad un’esperienza del passato, per di più non dotata di particolare attrattiva. Gesù usa questo termine non tanto facendo riferimento allo sfondo palestinese a lui molto familiare, ma attingendo a reminiscenze dell’Antico Testamento, dove questa figura è evocata, come nel bellissimo salmo 23, per dire di Dio, del suo amore, della scelta, della conoscenza reciproca, della comunanza di vita, della preoccupazione di Dio per il suo popolo, della condanna dei falsi pastori, dell’impegno da parte di Dio di ricondurre Israele dall’esilio, di radunarlo dalla dispersione. Nella parabola il Maestro, peraltro, non descrive soltanto il pastore, ma anche le pecore. La sequela suppone una chiamata da parte di Gesù, anzi si tratta di un processo che parte sempre da Lui.

Questa parabola, all’apparenza così bucolica e rasserenante, suscita una reazione stizzita da parte dei suoi interlocutori che non la comprendono. O forse, la capiscono così bene che la rifiutano, perché si sentono chiamati in causa quando Gesù apertamente dice: «Tutti quelli che sono venuti prima di me sono ladri e predoni. Ma le pecore non hanno dato loro ascolto»(v. 8). Anche questa parabola mette in luce chi è Gesù: l’unico e vero pastore, perché dà la vita per le sue pecore. Di qui l’avversione che si trasforma in offesa personale: «Alcuni dicevano: è un indemoniato, vaneggia, perché gli date retta?» (v. 20). E arriviamo quasi al brano appena ascoltato, che si svolge nel tempio, durante la festa della Dedicazione. Sembra quasi che i giudei approfittino della presenza del Maestro per intentargli un processo pubblico, a partire dalla domanda: «Fino a quando terrai il nostro animo sospeso? Se sei il Messia dillo apertamente» (v. 24). E Gesù non si lascia pregare e appellandosi alle opere inequivocabili che compie, passa al contrattacco, affermando: «Ma voi non credete, perché non appartenete alle mie pecore»(v. 26).

Testo

Comincia qui il brano proclamato. Che si compone di 4 versetti e contiene le quattro ragioni della distanza tra Lui e i giudei.

La prima è: «Le mie pecore ascoltano la mia voce, io le conosco ed esse mi seguono» (v. 27). Si lascia intendere una relazione speciale, fondata sull’ascolto e sul riconoscimento, cui segue la sequela. Non è un rapporto estrinseco, ma di natura intima che giustifica la sequela. Non è possibile stargli dietro senza passare attraverso questa profondità di un rapporto che evoca le diverse sfumature del legame amoroso, che innesca la sequela a partire dall’innamoramento. Si tende sempre ad invertire questa sequenza. Quasi che la sequela sia la causa della fede. Mentre è soltanto la conoscenza di prima mano che spinge ad un’esistenza alternativa. Un po’ come quando ci si innamora e si diventa capaci di cose fino allora impossibili. Che ridiventano presto tali se l’amore viene meno.

La seconda è: «Io do loro la vita eterna e non periranno mai. Nessuno me le strapperà» (v. 28). Le parole suggeriscono non solo che per Dio il destino umano è importante, ma dicono pure che l’uomo può smarrirsi, ma non perdersi in eterno. La sua vita non è affidata alle sue mani fino in fondo. Nessun male da lui commesso può corrompere e annullare l’originaria identità, che non è affidata alle sue mani soltanto e che pertanto è inalienabile. Ciò significa che Dio non molla la presa mai. Solo l’uomo può decidere di farlo. E proprio questo dice della forza attrattiva dell’amore che spinge sempre verso l’amato, nonostante intoppi, cadute, distrazioni. L’amore è un legame sottile, ma invincibile. Sempre all’amore si torna.

La terza è: «Il Padre mio, che me le ha date, è più forte di tutti, e nessuno può strapparle dalla sua mano» (v. 29). Qui si afferma la nitida consapevolezza del Maestro che riconduce a Dio e non semplicemente a se stesso la capacità attrattiva. È un Maestro autentico, perché fino alla fine vuol essere solo una via che conduce in alto e non intende restringere a sé la tensione del discepolo. In realtà, la forma matura dell’amore rimanda sempre ad altro da sé. Se infatti ci costruiamo un rapporto a due rischiamo di costruirci la fossa con le nostre mani. Sempre bisogna andare oltre e percepire un allargamento del proprio orizzonte. Anche nell’amore di coppia è mortifero quello che chiude mentre è sanante quello che apre. La qualità di un legame è sempre sospesa all’apertura verso un di più che sono i figli, la vita, Dio che garantisce della tenuta.

La quarta, infine, è: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (v. 30). Qui la rivelazione del Maestro giunge al suo acme. Se Gesù è “uno’” con il Padre, egli è Dio. Per questo i suoi interlocutori lo accusano di essere indemoniato, di bestemmiare. Era inconcepibile per un ebreo che non osava neanche nominare il nome di JHWH poter credere ad un uomo che si identifica con Dio stesso. Eppure questo è il vertice della parabola, il punto di svolta della vicenda di Gesù che gli costerà la vita.

Meditatio

Dopo questo breve testo siamo invitati a porci qualche domanda: Chi sono io come credente? Qual è il Dio in cui credo? Quale sarà il mio destino? Che cosa mi suggerisce la mia fede?

Vorrei concentrarmi su due questioni. La prima è relativa al fatto che oggi nel mondo globalizzato cresce l’interesse per forme religiose lontane dalla nostra tradizione cristiana. Anche tra i giovani si coglie un interesse per certe proposte che vengono dall’Oriente, come il buddismo e l’induismo, che esercitano una forte attrazione o quantomeno una crescente curiosità. Non è solo la novità che intriga, ma qualcosa di più profondo. Si tratta di forme religiose in cui si opera una sorta di dissolvenza della persona dentro l’oceano della divinità. E questo paradossalmente piace. È come dire: tu non esisti più con la tua individualità, sei piuttosto una goccia d’acqua che ti immergi in questo mare del divino e così ti allontani dalle durezze e dalle fatiche della vita. Ma anche dalle responsabilità e dalle memorie. È un po’ una sorta di piacevole naufragio, che cancella ogni paura rispetto al passato e al futuro.

Le parole di Gesù vanno in una direzione opposta: tu sei qualcuno che mantiene la sua individualità, che ha una singolarità irripetibile al punto che c’è una voce che ti raggiunge, anzi che ti riconosce fra tutti. E tu puoi entrare in relazione con quella voce. «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono». Possiamo dire che da un lato c’è l’annullamento della persona che si perde nel tutto e dall’altra c’è la vocazione della persona che si costruisce in rapporto al dialogo con il tu di Gesù.

Per quale di queste opzioni oggi mi sento più portato? Quale fede desidero? Come mi vado orientando: verso un rapporto esplicito con una persona o verso una immersione generica nel mistero?

Si potrebbe obiettare – e siamo già alla seconda questione – : ma chi ci assicura che le parole del Maestro vanno prese sul serio? Non sono forse surriscaldate, perché attribuiscono ad un uomo una possibilità divina? La risposta a questa domanda si può trovarla nelle parole di chiusura di Gesù: «Io e il Padre siamo una cosa sola». Gesù non è venuto ad inaugurare un’altra religione, Lui è venuto solo a raccontarci del suo rapporto con Dio. E solo Lui è autorizzato a svelarcene il volto, altrimenti impenetrabile, se è veramente come Dio. Possiamo chiederci: senza Gesù Cristo sarei capace di credere in Dio? Confesso che senza di Lui, senza il suo Vangelo che ci confida il volto autentico, non crederei? Gesù con la sua vita e la sua morte ci ha svelato un altro modo di intendere Dio, molto distante da quella che è la percezione diffusa che ne fa un essere che ci limita e che ci irreggimenta. Solo crescendo nel rapporto con Gesù diventa possibile dare credito alle sue parole che ci assicurano che «nessuno potrà mai strapparci dalla sua mano». E qui c’è il “di più” della fede, che oggi viene spesso lasciato in ombra. Si tratta della vita eterna che comincia già ora e che spinge a guardare oltre il presente con più slancio e fiducia. Questo ampliamento di visuale non è percepito. E non tanto dagli atei quanto dagli stessi credenti. In realtà, credere significa che niente e nessuno potrà mai strapparci da Dio. Soltanto la nostra libertà può creare una distanza. Per questo c’è da pensare e da pregare.

Il credente, come Paolo di Tarso, lo aveva compreso con chiarezza: «Chi ci separerà, dunque, dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte, né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rom 8,35).