«Sulle tracce del Risorto» (2)

Lectio divina del vescovo con i giovani. Rieti, chiesa di Santa Chiara (Gv 21, 1-19)
08-04-2016

Premessa.

L’obiettivo di questi incontri non è solo quello di trovare un momento comune al di là dei diversi percorsi personali, ma anche quello di imparare la pratica del testo biblico. In parole più semplici, imparare a passare dal testo biblico alla vita, transitando per la preghiera. Questo esercizio è decisivo per chiunque voglia diventare discepolo. E si realizza attraverso una serie di parole-chiave. Sono la lectio, da cui nasce la meditatio,da cui nasce la contemplatio, da cui nasce l’oratio, da cui nasce la consolatio, da cui nasce la discretio, da cui nasce la deliberatio, da cui nasce, finalmente, l’actio.

La lectio è il primo momento e consiste nel chiedersi “che cosa dice il testo?”. Perciò bisognerebbe leggere il testo con la penna in mano: sottolineare i personaggi, le azioni, i sentimenti. Non bisogna essere biblisti: basta prendersi il tempo di smontare il testo.

Quindi c’è la meditatio che consiste nel chiedersi “che cosa ci dice il testo?”, cioè quali sono i valori e le provocazioni che ricavo da esso.

Alla meditatio segue un passaggio delicatissimo per cui entra in gioco la grazia di Dio che ci prende per mano. È il momento della contemplatio, grazie al quale ci mettiamo di fronte al testo e cerchiamo di far emergere un’altra domanda: “che cosa dice a me il testo?”.

L’oratio è il quarto gradino dove comincio a dialogare con il Signore Gesù mediante il testo con la lode, il rendimento di grazie, la domanda. Come dice santa Teresa d’Avila: «L’orazione non è altro che un intimo rapporto con Colui da cui sappiamo d’essere amati».

Dall’oratio nasce la consolatio: cioè si sperimenta una affinità tra noi e gli atteggiamenti evangelici, si avverte il tocco di Dio.

Il passo successivo è la discretio, che ci fa cogliere quello che collima con Dio e quello che diverge.

Segue la deliberatio, che è la scelta di vivere in un modo piuttosto che in un altro.

Per arrivare, finalmente, all’actio, che è l’agire che cambia concretamente il cuore dell’uomo e la vita. Resta sempre vero che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Ma quello che è importante e che dalla lectio si arrivi all’actio, perché diversamente si rischia di perdere il senso della pratica e si riduce tutto ad un esercizio vuoto.

Io mi limiterò a proporre la lectio e un accenno di meditatio, poi lasceremo il tempo di dieci minuti di silenzio per l’oratio e quel che segue.

Lectio

Contesto.

Il capitolo 21 è un’aggiunta al Vangelo che terminava con la dichiarazione di Gv 20, 31 («questi (segni che avete letto) sono stati messi per iscritto perché crediate che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio, e perché credendo abbiate vita nel suo nome»), ma non si conosce una tradizione senza il capitolo 21 che si trova in tutti i manoscritti in greco e che è parte autentica del Vangelo. Si potrebbe dire che se il capitolo 20 ci mostra come Gesù risorge, il capitolo 21 ci fa vedere come risorgono i suoi discepoli.

Testo.

Proviamo a smontarlo. Possiamo agevolmente distinguere il racconto dell’apparizione del Maestro (21, 1-14) dal dialogo tra Gesù e Pietro (21, 15-19).

L’apparizione avviene in Galilea, cioè nella terra d’origine di Gesù e dei suoi. E ciò induce a pensare che ci fu un momento in cui i discepoli tornarono a casa. Questo ritorno potrebbe far pensare alla dispersione che seguì la morte di Gesù.

Colpiscono i nomi dei 7 di fronte a cui si manifesta Gesù. Sette è una cifra simbolica che evoca la totalità. I nomi esplicitati sono: Pietro, che è sempre il primo ad essere citato, Tommaso e Natanaele, quindi Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, e da ultimo altri due, i cui nomi restano sconosciuti.

Pietro è colui che prende l’iniziativa: «Io vado a pescare». Non è solo una conferma del suo ruolo di leader, ma anche quello di uno stile che fa, prima di dire. Non dice «Andiamo a pescare» e tantomeno «Armiamoci e partite»…Parte lui intanto e gli altri lo seguono.

La pesca si rivela deludente. «Sulla barca… non presero nulla», annota il versetto 3. Ed è a questo momento che si inserisce il Maestro. Ma i suoi non lo riconoscono. Lo vedono, ma non si accorgono della sua presenza. Siamo dinanzi all’apparizione che non è mai indotta dai discepoli, ma sempre subita e, perfino, fraintesa.

Altra parola che colpisce è «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gesù si introduce con un appellativo che si trova solo questa volta in Giovanni e tre volte invece nelle sue lettere. Sorprende che Gesù si introduca sempre attraverso una domanda, come aveva fatto con la Samaritana o con Filippo nel chiedere il pane. Poi però si passa ad un imperativo deciso: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». Ci fa pensare la precisione dell’invito e la sicurezza di chi lo pone di fronte ad esperti pescatori.

Ma proprio l’obbedienza, forse la rassegnazione, produce il miracolo di una pesca imprevista e abbondante: «La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci». Proprio la grande quantità è un segno eloquente dei tempi messianici, che spiazza e crea qualche domanda ai discepoli smarriti. In questo contesto in primo piano c’è il discepolo che Gesù amava, il quale con chiaroveggenza dice a Pietro: «E’ il Signore!». Anche al mattino di Pasqua, se ricordate, Giovanni era arrivato per primo al sepolcro, aveva atteso l’arrivo di Pietro, ma era stato il primo ad intuire che cosa era successo nel sepolcro aperto.

Poi però si torna su Pietro. Ne viene messa in risalto la prontezza e l’impulsività, con un dettaglio: si riveste frettolosamente, perché si pescava con nulla addosso.

Il pane e il pesce sono i segni che trovano sulla spiaggia e che lasciano emergere un riferimento all’Eucaristia e, dunque, un indizio di riconoscimento di chi gli si para di fronte. Non a caso, il pesce nell’iconografia antica era con le sue iniziali la trascrizione di Gesù Cristo. Gesù prepara tutto, ma vuole il contributo dei discepoli: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora», dice ai suoi discepoli attoniti.

E Pietro subito scarica i pesci, di cui si precisa il numero, centocinquantatré, che, secondo le opinioni del tempo, era quello di tutte le specie dei pesci marini, come a rimarcare l’universalità. E si mette in evidenza che la rete non si spezza. Chiara allusione all’unità della Chiesa, di cui la barca è simbolo. Anche nelle chiese è rimasta questa consapevolezza, tanto che si chiamano “navate” le parti che definiscono la basilica cristiana.

Ormai hanno compreso. «Nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore».

A questo punto sembra che ci sia come una zoommata su Pietro, che si staglia dal gruppo, alla domanda di Gesù: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Pietro diventa l’interlocutore unico di Gesù, che gli chiede per tre volte se il suo amore è più grande di quello degli altri. Sappiamo che alla terza risposta Pietro, consapevole della sua presunzione messa in scacco dal suo tradimento, abbassa il tiro, non mettendosi più a confronto con gli altri, ma facendo appello alla chiaroveggenza del Maestro: «Tu lo sai che ti voglio bene». E Gesù invece di far riferimento a sé lo invita: «Pasci le mie pecore». E aggiunge un esempio sulla vecchiaia che lascia intendere che questa missione sarà una progressiva espropriazione della sua libertà, al punto da non poter più decidere di sé.

L’ultima parola. «Seguimi!» è il suggello dell’incontro. Solo a questo punto il Maestro gli dice di stargli dietro.

Meditatio

I temi su cui fermarsi a riflettere sono tanti, come si è visto da una semplice opera di smontaggio del testo. Mi limito a richiamarne tre.

La tentazione di tornare alle vecchie abitudini.

Pietro e i suoi amici tornano in Galilea. Cioè alla vecchia vita di pescatori. La vita di fede conosce momenti di entusiasmo e momenti di crisi. Forse anche noi riconosciamo di stare in un momento down, in cui il rischio è di adagiarsi a vivere una fede a bassa intensità, accontentandosi di alcune pratiche, che però lasciano deserto il cuore e abbandonano l’intelligenza verso altri interessi. È fatale tornare indietro e nascondersi dietro una appartenenza stanca e demotivata, priva della gioia del Vangelo. Questa situazione non deve debilitarci fino al punto di abbandonare il campo. Dobbiamo resistere all’aridità della vita spirituale, esattamente come le grandi figure di santi che hanno convissuto a lungo e per periodi oscuri con il dubbio, l’insensibilità, la precarietà. Vorrei richiamare la figura di santa Teresa di Lisieux, così vicina all’incredulità del nostro tempo. Ella così scrive alla sua Madre nel suo celebre Diario di un’anima: «Godevo allora di una fede tanto viva, tanto chiara, che il pensiero del Cielo formava tutta la mia felicità, non potevo credere che vi fossero degli empi i quali non avessero la fede. Credevo che parlassero contro il loro stesso pensiero negando l’esistenza del Cielo, del bel Cielo ove Dio stesso vorrebbe essere la ricompensa eterna. Nei giorni tanto gioiosi della Pasqua, Gesù mi ha fatto sentire che esistono davvero anime senza fede, le quali per l’abuso delle grazie hanno perduto questo tesoro immenso, sorgente delle sole gioie pure e vere. Ha permesso che l’anima mia fosse invasa dalle tenebre più fitte, e che il pensiero del Cielo, dolcissimo per me, non fosse più se non lotta e tormento… Questa prova non doveva durare per qualche giorno, non per qualche settimana: terminerà soltanto all’ora segnata da Dio misericordioso e… quest’ora non è ancora venuta. Vorrei esprimere ciò che penso, ma, ahimé, credo sia impossibile. Bisogna aver viaggiato sotto questo tunnel cupo per capirne l’oscurità” (Manoscritto C, 276)

La Chiesa senza Cristo è destinata a sicuro fallimento.

La pesca andata a male di notte si capovolge in quella miracolosa in pieno giorno. Di diverso c’è la parola del Maestro, che invita a gettare le reti. Non dipende tutto da noi. L’essenziale è legato all’unione con Lui. Dimenticare questo vincolo ci porta ad inanellare una serie di insuccessi che alla fine ci inducono alla rinuncia. Bisogna ritrovare questa sensazione che tutto dipende da Dio e noi possiamo qualcosa soltanto in rapporto a Lui. Questa persuasione ci dona due sentimenti positivi: ci fa meno ansiogeni rispetto ai risultati, perché non si tratta di farsi prendere dallo stress di prestazione. Così come non ci fa inorgoglire quando sembriamo aver ottenuto qualche obiettivo. E poi ci dona la forza di resistere senza mollare. La tenuta nelle scelte fondamentali è oggi una chimera che si infrange sugli scogli del nostro andirivieni. Siamo incapaci di tener fede alla nostra biografia che è continuamente contraddetta e finisce per renderci incomprensibili a noi stessi. E quindi facile preda di surrogati che prendono il posto del vuoto. La Chiesa pure, se perde il suo ancoraggio a Cristo, rischia di diventare un’agenzia di servizi più o meno utili che perde il suo vero obiettivo, che è di essere un tramite verso Dio.

L’amore per Cristo apre al servizio agli altri.

Pietro replica sempre più imbarazzato al Maestro che lo incalza. Ma quello che sorprende è che Gesù, ottenutane la risposta, non lo invia a se stesso, ma gli conferisce un servizio per gli altri. La fede non ci isola dentro una relazione verticale che ci fa perdere i contatti con gli altri, ma ci immerge più profondamente dentro le vicende quotidiane con una forza e una luce che fanno emergere ciò in cui crediamo. La responsabilità, che oggi è diventata merce rara, sboccia dall’ascolto di Dio, che affina anche l’ascolto degli altri.

Oratio

«L’amore di Cristo per Pietro fu così senza limiti: nell’amare Pietro Egli mostrò come si ama l’uomo che si vede. Egli non disse: “Pietro è Pietro e io lo amo; è il mio amore semmai che lo aiuterà a diventare un altro uomo”. Egli quindi non ruppe l’amicizia per riprenderla forse quando Pietro fosse diventato un altro uomo; no, Egli conservò intatta la sua amicizia, e fu proprio questo che aiutò Pietro a diventare un altro uomo. Credi tu che, senza questa fedele amicizia di Cristo, Pietro sarebbe stato recuperato? A chi tocca aiutare chi si sbaglia se non ci si dice amici, anche quando l’offesa è stata contro l’amico? L’amore di Cristo era illimitato, come l’amore deve essere quando si deve compiere il precetto di amare amando l’uomo come si vede. L’amore puramente umano è sempre pronto a regolare la sua condotta a seconda che l’amato abbia o non abbia perfezioni; mentre l’amore cristiano si concilia con tutte le imperfezioni e debolezze dell’amato e in tutti i suoi cambiamenti rimane con lui, amando l’uomo che vede. Se non fosse così, Cristo non sarebbe mai riuscito ad amare: infatti dove avrebbe mai trovato l’uomo perfetto?» (S. Kierkegaard, Gli atti dell’amore).