Quale Bellezza salverà il mondo? La Via Pulchritudinis: itinerario di Evangelizzazione nei Santuari

In occasione del 54° convegno del Collegamento nazionale dei Santuari, a Matera
18-11-2019

Premessa: la vita è bella?

Secondo Simone Weil, «la bellezza è una sfinge, un enigma, un mistero che ci esaspera in modo doloros» (S. Weil, Forme dell’amore implicito di Dio – 1942 – in Attesa di Dio, Milano, 2008,125). A riprova di tale ambiguità basterebbe far riferimento a Platone che nella fase giovanile è entusiasta dell’arte che ritiene “ispirata” dal divino; poi però quando si tratta di delineare la città ideale mette al bando tutti gli artisti che sarebbero solo al servizio delle emozioni e delle passioni e quindi incapaci di attingere alla verità. Infine, nell’ultima fase della sua vita, ritorna a parlare dell’arte come “divina follia”.

Si capisce allora perché nella celebre pagina di Dostoevskij nel suo romanzo L’idiota la bellezza è una domanda più che un’affermazione. La scena è ambientata in una villa dell’aristocrazia russa affollata per una festa di compleanno durante la quale il giovane Ippolit, malato di tisi, ateo e infervorato del suo ateismo, chiede al festeggiato principe Miskin, il personaggio che dà il titolo al romanzo perché la sua fede candida viene scambiata per idiozia dagli uomini di mondo: «È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?». Poi rivolgendosi a tutti e alzando la voce: «Signori miei, il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza! Io, invece, affermo che lui ha questi pensieri frivoli perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato… Non arrossite, principe, altrimenti mi farete pietà». Infine, rivolto di nuovo al principe con un sorriso sarcastico aggiunge: «Quale bellezza salverà il mondo?». La domanda di Ippolit si fa carico dell’ambiguità che circonda l’esperienza estetica e che ci porta a chiederci: la vita è bella? E che significa dire “è bello”? È la stessa cosa che dire “mi piace”? E, soprattutto, come distinguere il bello: è un fatto oggettivo o soggettivo? In altre parole: è qualcosa che inerisce alla cosa o è soltanto una interpretazione della mente?

Le domande sarebbero troppe. Mi accontento di partire da una: quali sono le sorgenti della bellezza?

La prima sorgente della bellezza è la natura che è sempre bella. Basta alzare lo sguardo e vedere il cielo. E poi il mare che è acqua+luce+vento+suono, da cui si liberano le onde. Nella natura tutto è bello, anche quando è pioggia, nebbia, brina, vento gelido, ghiaccio. Anche se la giornata è uggiosa resta struggente. Vi è un’intrinseca bellezza nella tempesta, nell’uragano, perfino nel terremoto se non ci fossero le conseguenze per gli umani. Come sostiene Goethe nel pieno della modernità: «Il bello è una manifestazione di arcane leggi della natura».

La seconda sorgente della bellezza è l’essere umano. A differenza della natura che è sempre bella qui sembrerebbero intervenire delle differenze. Ma ogni volto, preso nella sua bontà, è bello. In altre parole un essere umano è compiutamente bello quando è buono, giusto, intelligente, generoso, coraggioso, leale. È questa la vera distinzione e comunque si è belli quando non si è affettati e si diventa naturali.

La terza sorgente della bellezza è l’arte. Alle nove Muse dell’antichità (poesia: epica, amorosa, lirica; teatro: tragedia, commedia, mimo, danza), la storia, l’astronomia, oggi se ne aggiungono altre di nuovo conio: musica, fotografia, cinema, design, letteratura, arti figurative, moda, architettura, danza e teatro. Oggi si coglie una certa distanza dell’arte dalla natura e dunque dalla bellezza.

Torno al punto di partenza e chiudo. L’ambiguità della bellezza esiste. E non c’è che una via di uscita. Tenere insieme etica ed estetica. L’estetica senza etica diventa estetismo, il che alla fine la porta a degenerare anche in quanto bellezza, come dimostra l’estetica prodotta dai regimi totalitari, sempre così pomposa da diventare ridicola; a sua volta l’etica senza estetica diventa moralismo, spesso anche giustizialismo, si pensi agli iconoclasti cristiani o ai piagnoni di Savonarola o ai riformatori protestanti, tutti accomunati dallo zelo nel distruggere le immagini e dall’avversione per le decorazioni.

Se le cose stanno così, ha ragione Keats: la bellezza è verità, verità è bellezza. Per questo nella nostra epoca la bellezza del mondo rimane quasi la sola via attraverso la quale si possa lasciar penetrare Dio. Là dove verità e giustizia non sembrano più reggere, forse l’appello della bellezza può aiutare a ripensare questo insieme di verità, bontà e giustizia che appartiene appunto alla pienezza del mistero trascendente.

1. La via della bellezza come via di annuncio

La via della bellezza ci conduce a quell’intero, cui oggi Papa Francesco, dopo secoli di frammentazione, ci richiama con forza, soprattutto nella Laudato sì, dove il principio-chiave è “tutto è connesso” (n. 16), cioè tutto sta o cade insieme. La capacità di cogliere «il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità», con le parole di Von Balthasar.

Il celebre studioso della comunicazione McLuhan amava dire che «l’artista è l’uomo della consapevolezza integrale». Il suo approccio alla realtà, infatti, non è settoriale è strumentale come quello della scienza e della tecnica, ma immersivo, empatico, attento a ogni sfumatura, capace di leggere le risonanze tra le cose, le epoche, gli stili. Capace anche di “uscire” dagli schemi percettivi consolidati, per fare del contatto con la realtà delle cose un «incontro vivo» (come lo chiama Guardini).

Come ancora scrive Guardini, l’arte è un dialogo intenso e appassionato tra esteriorità e interiorità, che non contrappone le due dimensioni, ma ne mostra l’unità profonda: «nell’arte l’uomo cerca di ristabilire l’unità tra ciò che vuole e ciò che ha; tra ciò che deve essere e ciò che è; tra l’anima che è dentro di noi è la natura che è fuori di noi; tra il corpo e lo spirito» (Lo spirito della liturgia, p. 84)

La bellezza che si esprime nell’arte è dunque una via privilegiata per educare a quella verità fondamentale che è la profonda interconnessione di tutte le cose. Una verità che, come vedremo, nella liturgia si trasfigura.

L’arte educa senza concetti e precetti, per immersione in un’esperienza che ci fa uscire da noi, allargare gli orizzonti, e poi rientrare in noi stessi riconciliandoci con la nostra parte migliore.

Come scrive ancora Guardini, l’arte non ha uno scopo istruttivo, non mira a «insegnare determinate verità o virtù». Lo stesso vale per chi l’opera la contempla: «non deve proporsi null’altro che di soffermarsi in essa, respirarvi, muoversi liberamente, prendere consapevolezza della parte migliore del suo essere’ non serve la critica raziocinante o la ricerca di ’dottrine o savi ammonimenti» (Ivi, p. 84).

Non solo l’arte ci fa fare esperienza dell’intero e dell’unità degli opposti, ma ci educa anche alla fondamentale distinzione tra senso e scopo (ivi, 74).

In un’epoca dove regna la strumentalità e l’azione orientata a scopi utilitaristici (che spesso sono pure insensati), e dove la pedagogia implicita è “ciò che non ha scopo non ha senso” (col suo correlato “tutto ciò che da un vantaggio è sensato”) l’arte ci educa al fatto che ci sono cose che hanno senso pur senza avere uno scopo: lo scopo è ciò che produce un effetto fuori di sé, il senso è ciò che “riposa in sé”. L’arte ci educa al fatto che esistono realtà prive di scopo, ma ricche di senso. Un senso che possiamo solo contemplare e non possedere. La bellezza ci può educare a non essere idolatri.

Infatti alla domanda “Che cosa è bello?” Simone Weil risponde: la materia che abbiamo plasmato grazie al nostro spirito, dalla quale però siamo disposti a distaccarci (Il bello è il bene, Mimesis 2013). Oggi potremmo aggiungere “le meravigliose invenzioni tecniche”; il bello è bene quando accettiamo di non identificarci con la materia che abbiamo plasmato anche grazie allo spirito, rendendola così idolo di chi cui facciamo schiavi. Quando accettiamo di distaccarci da essa con libertà. «Sempre ci avviciniamo a Dio rifiutando e lasciandoci dietro la materia da noi plasmata» (ivi, p. 30).

In un certo senso si può dire che è lo stesso movimento di Dio che crea il mondo, poi si stacca da esso per lasciarlo libero; e contemplandolo, «vide che era cosa buona».

Solo in questa libertà dal possesso, dal dominio, dalla strumentalità c’è educazione autentica, e l’arte è una via maestra.

Il bello, infine, educa al bene. Ma che cosa è bene? Simone Weil offre una definizione in grande sintonia con il paradigma della “connessione universale”: per lei il bene è infatti «Quel movimento con cui ci si strappa da se stessi in quanto individui, in quanto animali, per affermarsi uomini, partecipi di Dio» (Weil 2013:27).

Ciò che ci rende umani è la sospensione della pulsione immediata, dell’istinto di conservazione contro altri, e, invece, il riconoscimento della comune umanità, il primato della fraternità. Siamo tutti interconnessi in Dio attraverso Gesù, come i tralci con la vite.

«Al di fuori di questa azione, che pone l’unità del bello e del bene volendola, tutto è sonno» (Weil 2013:30).

2. La bellezza trasfigurante della liturgia: educare all’intero

La liturgia costituisce un vero contesto pedagogico, che ricomponendo le tante dimensioni che costruiscono la pienezza cui l’essere umano è chiamato, «la libera pienezza della totalità cristiana», (secondo la bella espressione di Guardini), agisce come esperienza di trasformazione, rinforzo, conversione, rigenerazione del senso di appartenenza. Si può parlare quindi di una vera e propria ’pedagogia liturgica’, dal momento che la liturgia, nel trasfigurare i segni, i gesti, le forme della partecipazione individuale, ha – come scrive ancora Guardini – la capacità di “educare religiosamente”. Infatti «la liturgia crea un ampio mondo esuberante di intensa vita spirituale e fa si che l’anima vi si muova e vi si sviluppi. Questa ricchezza di pensieri, parole, azioni; questo intero ordinamento di tempi rimane incomprensibile, se lo si commisura all’unità lineare della funzionalità rigorosamente oggettiva» (Lo spirito della liturgia, pp. 80-81).

Infatti, pur producendo un effetto educativo, la liturgia non ha uno scopo educativo, ma celebrativo. Per questo educa al senso, alla gratuità, alla bellezza. E soprattutto, come osserva ancora Guardini, la liturgia ha la sua ragion d’essere non nell’uomo, ma in Dio: «nella liturgia l’uomo non guarda a sé ma a Dio» (ivi). È un esercizio di trascendimento di sé che rompe il circuito autoreferenziale in cui la cultura odierna ci intrappola, consentendo di ritrovarci in una dimensione di grande respiro. Un esercizio che non ha però un tono didattico: «la via che conduce alla vita liturgica non si dispiega attraverso la mera istruzione teorica, bensì è offerta innanzitutto dalla pratica. Osservare e agire sono le due forze fondamentali in cui ha da esser radicato tutto il resto» (Guardini, p. 125). Imparare facendo, si direbbe oggi.

La “pedagogia liturgica”, il valore trasformativo, trasfigurante e dunque educativo della liturgia sta principalmente in una “educazione all’intero” (come l’arte nelle sue espressioni più riuscite) e nel ricondurre questo intero alla sua origine, cioè Dio.

Approfondiamo qui tre dimensioni, anche se ce ne sarebbero molte altre.

Educare alla comunità

Liturgia viene dal greco leitos, che significa popolo, e ergon, azione, opera: è dunque un’azione di popolo, un “servizio pubblico” nel senso che implica un attivo e corale “prendere parte”. La liturgia sottrae la fede alla dimensione puramente intimistica, che tende sempre a scivolare nel sentimentale, e la riporta alla sua dimensione comunitaria, quella istituita da Gesù con i discepoli, ma prima ancora presente nell’immagine di Dio come Trinità. La Chiesa è un popolo in cammino, è un popolo che cammina insieme. Non si tratta semplicemente di un aggregato di persone, legate da patti e contratti, ma di una fraternità viva, che trasforma i suoi membri, legati da una reciprocità autentica e sollecita, quale quella raccomandata da San Paolo nella lettera ai Romani: «amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda». Non è una comunità effimera quella che condivide la liturgia, né il risultato di una convergenza di interessi: come scrive Florenskij«Non abbiamo bisogno di alleanze artificiose, costruite su calcoli umani» (Bellezza e liturgia, p. 59). Come scrive Guardini, piuttosto, «la comunanza sta nei sentimenti, nei pensieri, nelle parole, nel dirigere gli occhi e il cuore alla stessa meta; essa consiste nel credere tutti alla medesima verità, nell’offerta tutti il medesimo sacrificio, ne, mangiare tutti lo stesso pane divino; nell’essere tutti stretti un una misteriosa unità da un unico Dio è Signore. Tra di loro però, come personalità determinate e concrete, non si usurpano reciprocamente il campo dell’intimità» (Guardini, Lo spirito della liturgia, 47).

La liturgia ci consente l’esperienza di una verità fondamentale, enunciata, tra gli altri, da San Giovanni Damasceno in modo molto chiaro, e ben prima che la psicologia e le scienze umane arrivassero alla stessa conclusione: «Ogni persona contiene in sé l’unità grazie alla relazione con gli altri non meno di quanto la contenga grazie alla sua relazione con sé».

La dimensione comunitaria è in sé pedagogica, perché attraverso la preghiera, la testimonianza, la correzione fraterna, il perdono, la misericordia si è accompagnati oltre se stessi, oltre la prigione dei propri limiti (che così spesso ci piace chiamare “libertà”).

La liturgia è azione comune che trasfigura l’io in un “noi” che non lo cancella, ma lo valorizza e lo fa camminare e crescere. La liturgia non dice io, dice “noi” (Guardini ivi 39). «Noi siamo incorporati in Gesù… In lui siamo il suo corpo, il corpo mistico di Cristo» (Ivi, 40).

Educare all’intero attraverso la sintesi delle arti

Per il fatto di ricondurre l’intero alla sua origine, e non semplicemente di cogliere l’intero al di là della frammentazione, la liturgia è superiore all’arte; ma, nello stesso tempo, non può fare a meno di servirsi dei suoi linguaggi, valorizzandoli.

La liturgia è dunque, a un primo livello, unità delle arti. Le arti consentono di accedere al livello di extra-ordinarietà che interrompe il quotidiano istituendo uno spazio e un tempo “altri”. L’arte offre il linguaggio più adatto per questo movimento: infatti la liturgia «parla in ritmi e melodie; si muove con gesti solenni e misurati; si riveste di colori e paludamenti che non appartengono alla vita consueta; si svolge in luoghi e momenti che sono stabiliti e organizzati secondo leggi superiori. Diventa così, in un senso più elevato, una vita filiale è infantile in cui tutto è immagine, ritmo e canto» (ivi, p. 85). Da notare che lo stesso Guardini, ma anche altri con lui (Benedetto XVI tra questi) accostano la liturgia al gioco non solo perché “formativa”, ma anche per il suo carattere di gratuità (libertà dallo scopo) e insieme necessità delle regole e della successione dei gesti.

Dunque la liturgia, dove “tutto si compenetra”, e che rappresenta la suprema sintesi di attività artistiche eterogenee (architettura e pittura, mosaico e scultura, musica e canto, oreficeria intaglio…) come afferma Florenskij (Bellezza e liturgia, Mondadori 2010) è la manifestazione sensibile, oltre che la via di «educazione permanente», al fatto che «tutto è connesso», che il mondo è una totalità unitaria. Ricordarcelo ci impedisce di usare mondo e persone e ci rende grati e responsabili. Rinnovare periodicamente, se possibile quotidianamente, questa consapevolezza ha un profondo effetto trasfigurante sulle nostre vite. Lo conosceva persino un autore come Gogol il quale nel suo Meditazioni sulla divina liturgia, parlava degli effetti di trasfigurazione sui fedeli che, avendo partecipato con fede e amore autentici alla celebrazione, ricevono «incommensurabili doni di grazia».

Perché nella liturgia, direbbe papa Francesco, il tutto è superiore alle parti e ogni aspetto riceve valore e senso non da se stesso, ma dalla totalità in cui è inserito.

«In sostanza in una chiesa tutto si compenetra: l’architettura, per esempio, tiene conto anche di un effetto minimo che può essere quello della voluta di incenso azzurro che sale lungo gli affreschi e attorno ai pilastri della cupola, che con il suo movimento amplifica all’infinito, o quasi, gli spazi architettonici della chiesa» (Florenskij, p.35).

È ancora: «Tutte le cose, reciprocamente subordinate, se prese singolarmente non esistono, o esistono in modo errato». Pensiamo quanto è importante questo insegnamento oggi, in un epoca in cui si sogna persino di separare la nascita della vita dall’amore di un uomo e di una donna, e in cui l’individualismo estremo ha isolato le persone lasciandole in un buio di solitudine e di vuoto esistenziale.

Tante arti di questa sintesi liturgica sono poi “eccentriche” rispetto a quelle che la modernità ha conservato, e ci permettono di restare in contatto con una pienezza e ricchezza che altrimenti si perderebbero: «l’arte del fuoco, l’arte dei profumi, l’arte del fumo, l’arte delle vesti, fino all’arte delle ostie – con il misterioso segreto della loro cottura – o fino alla particolare coreografia dei movimenti cadenzati e regolari degli officianti» (ivi, p.36).

Educare all’unità di corpo e spirito attraverso il simbolo

Una intellettualizzazione eccessiva della fede, quale quella che si è verificata negli ultimi secoli in occidente, ha favorito un dualismo anima/corpo che rischia persino di essere blasfemo, se pensiamo alla creazione di Adamo (materia trasfigurata dal soffio vitale) e soprattutto all’incarnazione di Gesù. Il Vangelo è letteralmente una teologia della corporeità trasfigurata, delle situazioni materiali lette nella loro valenza simbolica (che non solo non le cancella, ma le valorizza), della gestualità e del contatto come canale comunicativo privilegiato, che scavalca con libertà le convenzioni sociali e l’etichetta, per affermare la verità sovrannaturale della fratellanza in Gesù e del legame filiale con Dio: pensiamo al fango impastato e posto sugli occhi del cieco, all’emorroissa che tocca il mantello, a Maria di Betania che unge di olio profumato i piedi di Gesù dopo averli bagnati con le lacrime e asciugati con i capelli; pensiamo al Samaritano, che si china sul ferito, lo solleva e se ne prende cura. Ma soprattutto pensiamo a Maria che accetta di fare del proprio grembo il tempio che accoglie il Salvatore.

Questa unità dell’essere umano, questa importanza della corporeità nella storia della salvezza è ben presente nella liturgia, dove la gestualità, la postura, l’uso della voce e delle pause dense di silenzio, il contatto con oggetti e persone, tutto concorre a creare le condizioni di una partecipazione totale, in cui il corpo non solo non è ostacolo ma è veicolo, segno, tempio a sua volta.

Come scrive Guardini, «anche dettagli come lo sfiorare in modo particolare diverse superfici e oggetti sacri di materiale diverso e lo sfiorarle, per di più, con le parti più sensibili del nostro corpo – le labbra – partecipano del rito in quanto tale, in quanti rito particolare, quale particolare sfera artistica: come arte del tatto, per esempio, o dell’odorato e via dicendo. Eliminandoli toglieremmo pienezza e compiutezza alla sintesi artistica» (Ivi, p. 36).

La pienezza esige che siamo non solo spettatori, ma partecipi con la totalità di noi stessi: postura, gesti, voce, silenzi. Anche emozioni: ancora una volta, non si tratta di dover scegliere tra pathos e logos, ma di vivere nella pienezza la loro profonda unità. Scrive a riguardo Guardini: «La liturgia sovrabbonda di profonda sensibilità, d’una vita del sentimento vigorosa, anzi talvolta addirittura appassionata. L’emotività liturgica è straordinariamente istruttiva: il cuore parla forte; però, contemporaneamente, si afferma non meno vigoroso il pensiero» (ivi, o. 25).

Natale in casa Cupiello

Nel 1931 Eduardo De Filippo mette in scena la celebre commedia, nella quale il padre rivolto al figlio Tommasino dice: «Il Presepio che è una cosa commovente, che piace a tutti quanti…». Risposta del figlio: «A me non mi piace. Ma guardate un poco, mi deve piacere per forza?» (in I capolavori di Eduardo, Einaudi, Torino 1979, 71). Alla fine de dramma però, accanto al padre morente, il figlio cambia idea e alla domanda del padre: «Tommasì, te piace o’ Presebbio?», superando il nodo di pianto che gli stringe la gola, risponde: «sì» (p.120).

Il presepe è il “caso serio” di un’esperienza artistica che attraversa i secoli da san Francesco (Natale 1223) fino a noi e che pone la questione di come ossigenare l’immaginazione, senza della quale la fede non può essere interiorizzata. La bellezza, dunque, pur nella sua irriducibile ambiguità, è la strada maestra per vivere l’esperienza spirituale a livello integrale, coinvolgendo tutti i sensi. Per ritrovare il senso attraverso i sensi: ecco spiegata la ragione per cui la via pulcritudinis è la via della salvezza. Nella società della stanchezza (cfr. J. Tolentino Mendoca, La mistica dell’istante. Tempo e promessa, Milano, 20014, 19-44) occorre combattere l’atrofia dei sensi attraverso un nuovo progetto di spiritualità che va reinventato alla luce della bellezza. Così prenderà corpo un nuovo modello che è tutto da scoprire e che può essere intuito in uno dei testori del canone cristiano, la lettera a Tito: «È apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo» (Tt 2,11-12).