Prima Domenica di Quaresima

(Gen 9,8-15; Sal 25; 1 Pt 3,18-22; Mc 1, 12-15)
21-02-2021

«Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra». L’arco, cui si fa cenno nel testo delle origini è l’arcobaleno che evoca il sereno dopo la tempesta. È un segno di riconciliazione tra Dio e l’umanità, dopo il diluvio universale. Ma cosa si nasconde dietro quest’immagine? Dietro si cela la condizione dell’uomo che come Gesù nel deserto è «tentato da Satana», ma al tempo stesso, «stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano». Satana divide e pone l’umanità ogni volta di fronte ad un bivio: alimentare la contrapposizione o tendere all’unità? Smettere o ricominciare? Seminare sfiducia o coltivare speranza?

Filippa Mareri (1190 ca. – 16 febbraio 1236), da qui avviò un originale percorso di vita cristiana che non si limitò a ricalcare le orme della spiritualità maschile, ma delineò un “cristianesimo al femminile”, che è la parte dell’arco che dobbiamo ricomporre anche oggi. Tre sono le caratteristiche di questa declinazione al femminile del Vangelo: la riscoperta della conversione, il linguaggio del corpo, la presa di parola. Anzitutto, la consapevolezza che non esiste solo il percorso tradizionale del monastero dalla più tenera età, ma che si dà la possibilità di una conversione. Come quella di Filippa, ormai promessa sposa. L’abbinamento verginità e perfezionamento subisce una smentita perché si dà la possibilità di ricominciare. Come la Maddalena. Oggi, del resto, chi sceglie la vita religiosa, lo fa a partire da storie di capovolgimento radicale che è l’esatto contrario della scontata vita di una “monaca” di Monza (!). Il linguaggio del corpo fa presa sul fatto che il Monastero era per una donna del XIII secolo il solo modo per conservare il dominio del proprio corpo e per affermare la propria libertà rispetto al gruppo familiare. Infine, la presa di parola dice che le donne cominciano ad avere rilievo pubblico e a decidere delle condizioni anche politiche. Contribuendo in molti casi allo sviluppo e alla coesione sociale.

Penso che alle figlie di Santa Filippa dobbiamo dire grazie per almeno tre ragioni. Perché costituiscono l’appello ad una vita che può sempre cambiare e migliorare. Perché con la libertà della loro scelta fanno capire che non si può solo replicare la famiglia, ma occorre andare oltre. Perché la loro maniera di parlare e di agire fa appello alla cura e alla tenerezza, di cui c’è sempre bisogno.

Lo avevano già capito i contemporanei di santa Filippa: «Ecco che ai nostri giorni/ nel Brabante e in Baviera/l’arte è nata nelle donne./ Signore Dio, cos’è quest’arte/ grazie alla quale un’anziana donna comprende meglio di un uomo di spirito?/ (…)/ Nel suo desiderio essa capisce la sapienza che emana dal cielo di quanto lo fa un uomo duro, che si mostra invece maldestro» ( fra Lamprecht di Ratisbona).