Perché un processo sinodale?

Intervento all'incontro di formazione per facilitatori e referenti sinodali
19-02-2022

Perché un ‘processo sinodale?

Non perché c’è la pandemia; non perché le chiese sono più vuote; Non perché la vita sociale ed economica è in crisi. Perché la chiesa è fatta per “camminare insieme”.

I cristiani della prima generazione vengono definiti “quelli della via” (cfr. Atti 9). Paolo, prima della conversione, quando perseguitava i cristiani, si faceva scrivere lettere per deportare a Gerusalemme in catene “quelli della strada / τινας… τῆς ὁδοῦ ὄντας”; ciò significa che i seguaci di Cristo erano indicati come persone in cammino, probabilmente missionari itineranti che sul modello di Gesù diffondevano il Vangelo in tutta la Giudea e la Galilea. Questo tema del ‘cammino’ era dunque strutturale nell’esperienza dei primi cristiani. Il tema della strada, peraltro, è una costante di tutto il Vangelo di Mc. Il termine in sé è presente praticamente in ogni capitolo (1,2-3; 2,23; 4,4.15; 6,8; 8,3.27; 9,33-34; 10,17.32.46.52; 11,8; 12,4); in alcuni punti la tematica è chiaramente allusa come in Mc 8,34: “Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Questo tema configura la dimensione di fede come una attività, una dimensione che per statuto non può essere statica. Ciò non significa ridurre la fede ad un puro attivismo senza fine, senza pause e senza meta, un semplice girare su sé stessi. Anzi, più di tutte le varie immagini, la strada configura anche una meta, un luogo da raggiungere (biblicamente parlando, la “terra promessa”). La strada è la strada di Dio, la sua strada: noi dobbiamo limitarci a togliere gli ostacoli (σκάνδαλον) perché poi sia Lui stesso a giungere in nostro soccorso.

I cristiani sono, dunque, sempre in movimento. A questo proposito, fa un certo effetto, sin dall’inizio del suo ministero petrino, l’insistenza che papa Francesco riserva alle immagini motorie: «camminare» (14 marzo 2013!) «partire», «ripartire», «muoversi», «movimento», «uscire», «viaggio», «ginnastica», «andare», «ritornare». E, al contrario: «accomodarsi», «rintanarsi», «bloccarsi», abituarsi a uno «spirito di parcheggio». Il problema è che muoversi si può perdere. Vale per patologie gravi e per una semplice indisposizione che costringe a letto. Anche alcuni tipi di depressione indeboliscono il potere di muoversi: fiaccando le e-mozioni, si inibiscono le motivazioni. Demotivati, non ci si muove. Spesso siamo de-motivati.

Così pure l’avanzare dell’età limita la fluidità dei movimenti e riconduce a movimenti standardizzati che rischiano di diventare vizi, cioè fissazioni. Perfino un certo modo di annunciare il Vangelo può diventare una consuetudine pastorale, esposta al rischio di fissazioni che ne riducono l’elasticità.

Ugualmente si perde movimento a causa del sovrappeso. La voracità rende il corpo della Chiesa inutilmente pesante, affaticato, greve da portare, costringendolo a lentezza, ineleganza, mancanza di grazia. Si è come sotto il giogo di mille cose da fare che affaticano senza dare vigore e soprattutto gioia.

Se te l’Un rimedio alla perdita di movimento è la fisioterapia, la riabilitazione (anche nella forma di dieta dimagrante). Un percorso riabilitativo è assai complesso, delicato. Nell’esperienza dello sforzo vibra un mistero interessante. Da un lato, quanto più un movimento è “sforzato” tanto meno è gradevole per chi lo compie e per chi lo guarda. Dall’altro, proprio grazie alla ripetizione dello sforzo, il gesto acquista disinvoltura e grazia. Quanto sforzo nell’apprendere un passo di danza e quanto, perché “sforzato”, risulta legnoso, impacciato, sgraziato. Nondimeno, se il ballerino accetta di sottomettersi ripetutamente a tale fatica, le sue movenze diverranno leggere, perché non gli costeranno sforzo alcuno. Così pure il bambino che impara a camminare, parlare, scrivere, solfeggiare, o l’apprendista impegnato a maneggiare un nuovo attrezzo in officina. La disponibilità a sottoporsi allo sforzo è la condizione necessaria per raggiungere il movimento senza sforzo, agile, bello, pieno di grazia. Costa sforzo a tutti muoversi di più e mangiare di meno, ma il risultato è la scioltezza, la grazia.

Perché ascoltare?

Lo “sforzo” che dobbiamo imparare per riprendere a camminare insieme è ascoltare. Camminare, pensare, ascoltare e ascoltarsi sono termini correlativi. Come i due discepoli di Emmaus (Lc 24) che parlano tra di loro, ma in realtà mentre camminano allontanandosi da Gerusalemme entrano in dialogo con un Viandante misterioso. Se vogliamo superare quella solitudine esistenziale che ci fa soli sulla faccia della terra e nel cuore della chiesa, dobbiamo sempre di nuovo imparare ad ascoltare. Non è l’ascolto una strategia di marketing, ma una dimensione fondamentale dell’esperienza umana. Per questo, occorre imparare ad “ascoltare con le orecchie del cuore”. Tale è l’imperativo categorico della fede di Israele e anche del Vangelo. Per imparare ad ascoltare e non soltanto ad orecchiare o a sentire, ci vogliano due qualità. Una della mente e una del cuore. La prima si chiama attenzione. La seconda è il coraggio.

L’attenzione è una qualità della mente che deve essere rivolta al kerigma e ai poveri. Dobbiamo ricentrare l’attenzione sul cuore del Vangelo che è la persona di Gesù Cristo che ci ri-vela Dio e ci mostra una qualità dell’umano che abbiamo smarrito. Il Vangelo è buona notizia perché finalmente ci svela della vita e del mondo un senso che altrove è smarrito. E senza senso la vita è insopportabile. Senza Gesù Cristo è impossibile accostarsi a Dio perché Lui è la prova che Dio stesso si è avvicinato a noi. L’attenzione, peraltro, si rivolge oltre che a Dio anche ai poveri, ai quali la Buona Notizia è annunciata. Ciò significa attenzione ai contesti, cioè alle sfide sociali, politiche, culturali, ecclesiali, economiche. La qual cosa assume la forma della compassione, del lasciarsi “toccare” intimamente dalle esistenze oppresse di molte persone, vicine o lontane; del lasciarsi toccare dalle ferite sociali, dalle violenze, dalle guerre e dalle enormi ingiustizie che ovunque vengono subite. Il kerigma contiene un ineludibile appello sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata ripercussione morale il cui centro è la carità. Se l’attenzione è una qualità della mente che porta alla compassione, il coraggio è una qualità del cuore che sostiene il discernimento e il dialogo. Questa qualità essenziale si chiama “parresia” (“avere il cuore rivolto a Dio, credere nel suo amore” (1 Gv 4,16). A questa si aggiunge la pazienza che fa andare avanti senza arrendersi di fronte alle difficoltà, per contribuire volontariamente all’edificazione del regno di Dio. Questa virtù si chiama hypomonè, cioè prudenza.

Pertanto il coraggio, fortificato dalla parresia e dalla prudenza/pazienza comporta la disponibilità a sopportare il conflitto, risolverlo o trasformarlo in un anello di un nuovo processo, per acquisire uno stile di costruzione della storia, un ambito dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità, secondo la suggestiva immagine del poliedro che a differenza della sfera, tiene dentro di sé molteplici aspetti tutti tra di loro interconnessi, come lascia intendere la Laudato sì e la Omnes fratres.

Perché i referenti e i facilitatori?

Per avviare questo esercizio dell’ascolto, occorre un metodo e una forma riconoscibili. In questo biennio (2021-2023) ci si ritroverà nei gruppi sinodali per ascoltare la chiesa e il mondo. In particolare nella Quaresima di quest’anno voi siete chiamati a creare le condizioni nelle parrocchie per rendere possibile, semplice e interessante l’ascolto reciproco. Dopo la fase narrativa in cui ciascuno si racconta, sarà la volta della fase sapienziale (2024) che aiuterà a definire alcune scelte, per approdare infine alla fase profetica (2025) che – in coincidenza con il Giubileo – definirà alcune decisioni condivise, non senza un grande appuntamento nazionale di convocazione, sulla falsariga dei passati Convegni ecclesiali (Roma 1976, Loreto 1985, Palermo 1995, Verona 2006, Firenze 2015). I referenti e i facilitatori sono le gambe, la testa e il cuore di questo avvio del processo sinodale. Siete quelli che devono creare le condizioni ambientali, psicologiche e spirituali per esercitarsi nell’ascolto. Avendo cura di allargare a tutti questa possibilità di prendere la parola, in cui accanto al diritto di esprimersi viene prima il dovere di ascoltarsi. “Si dice che Ignazio di Loyola, dopo alcuni rocamboleschi interventi chirurgici al ginocchio ferito in battaglia, riabilitò la gamba offesa camminando verso Gerusalemme. La fisioterapia a cui, camminando, sottopose il suo corpo fu l’occasione per riabilitare la sua anima (gli Esercizi spirituali). Il Sinodo sarà un percorso fisioterapico, riabilitativo per la Chiesa. Perciò esige speranza, sforzo ed esercizio ripetuto. E soprattutto richiede di ricominciare a camminare verso Gerusalemme e quanto vi capitò un mattino presto, quando era ancora buio” (G. C. Pagazzi).