Per comunicare la fede oggi: prima viene il catechista, poi la catechesi, quindi il catechismo

Incontro del vescovo con i catechisti. Rieti, Auditorium dei Poveri
25-10-2015

Premessa

Lo spot che abbiamo appena visto e che celebra il primo miliardo di utenti Facebook è interessante sia per il linguaggio che per il modo in cui rende evidenti i significati della rete. Quelli più immediati ed espliciti, come il desiderio di relazione, ma anche quelli più timidi eppure presenti, come la domanda di infinito, di «ulteriorità». Il tono è coinvolgente, pieno di immagini che sono anche metafore: tanti modi diversi per dire le forme della connessione e il desiderio di comunicazione. Interessante, per inciso, che si faccia riferimento all’ascolto: «essere con» è più importante che «esserci» e ascoltare è la prima mossa del comunicare, la condizione dell’apertura all’altro. Facebook è così presentato come un luogo «fatto per le persone», facilmente accessibile, senza distinzioni di sorta: chiunque può sedersi su una sedia. Un luogo che la gente può «considerare come proprio», in cui sentirsi a proprio agio. Dove incontrarsi, scherzare, scambiare idee, condividere musica, sono i bisogni che trovano più facilmente risposta. Ma è anche un posto dove insieme si possono condividere domande più grandi: «L’universo così immenso e oscuro che ci domandiamo se siamo soli.. Forse il motivo per cui facciamo tutto questo è per ricordarsi che non lo siamo», è la suggestiva chiusa della videoclip. Questa immensità e questa oscurità sono il luogo di una domanda possibile che va intercettata, e sono anche l’affaccio su un «oltre» che la Rete non può offrire e rispetto al quale può diventare, però, una «porta» d’accesso.

Lo spot offre, dunque, una prima metafora per inquadrare il significato dei social media dal punto di vista dei nativi: la sedia come elemento ambientale relazionale. Non «strumento per sedersi» ma forma che consente una vicinanza. È questo il suo «messaggio». Il significato è subordinato a un elemento antropologico (la relazionalità) e non dettato dal livello tecnologico-funzionale.

A partire da questa sintesi evocativa del mondo dei nativi digitali, la mia riflessione si snoderà in tre passaggi, relativi rispettivamente al contesto digitale, con i rischi e le opportunità; a come cambia l’educazione per effetto di questa nuova condizione e infine al ruolo del catechista, quale comunicatore della fede, che è chiamato non tanto a trasmettere un sapere, quanto a favorire un incontro. Di qui i tre temi della mia conversazione:

*ascoltare il contesto

*ripensare l’educazione alla fede

*fare catechesi.

1. Ascoltare il contesto, cioè l’ambiente e la cultura digitale

Viviamo in un mondo iperconnesso, ovvero segnato da alcune caratteristiche che hanno modificato l’ambiente in cui viviamo, facciamo esperienza, intrecciamo e manteniamo relazioni. In sintesi se ne possono sottolineare tre caratteristiche principali:

– convergenza: scomparsa dei confini tra i media e fine dell’equazione un mezzo/una funzione (il cellulare, per esempio, non serve più solo per telefonare ma per una serie di altre attività)

– postmedialità, ovvero perdita dei confini tra i media e l’ambiente: siamo sempre esposti e connessi; schermi, interfacce, musica, etc. fanno parte ormai del nostro ambiente quotidiano. È quindi difficile distinguere tra una «realtà reale» e una «realtà mediale»: i media sono parte del nostro ambiente reale, si sono integrati nel paesaggio, sono diventati ‘naturali’, soprattutto per i nativi ma non solo.

– perpetual contact: con il boom degli smartphones e la diffusione dei tablet siamo sempre più perennemente connessi, anche fuori casa, sul lavoro etc. Tante persone non spengono il cellulare neppure la notte, per essere sempre raggiungibili. I genitori regalano i cellulare ai figli come prolungamento di un cordone ombelicale fatto di raggiungibilità costante. Se per qualche motivo si dimentica il cellulare si è colpiti dalla «sindrome da arto mancante».

In sintesi, non «usiamo» strumenti, ma «abitiamo» un ambiente «misto». E come in ogni ambiente, in parte ci adattiamo, in parte lo plasmiamo sulla base dei significati che riteniamo importanti.

Per i giovani l’ambiente di comunicazione è soprattutto FB, che ha assunto una diffusione enorme, come si evince dai pochi ma significativi dati riportati.

Gi adulti proiettano su questo mondo, dal quale si sentono estranei, una serie di preoccupazioni, in gran parte legate alla non conoscenza della piattaforma e delle pratiche effettive dei giovani.

In realtà, le tecnologie sono ambivalenti, e possiamo dirlo con i versi di due poeti: da un lato ci affascinano e quindi ci seducono e ci plasmano (Goethe); dall’altro è proprio partendo dai rischi che si può cercare una pienezza (Hölderlin).

I rischi non vanno sottovalutati, ma occorre anche tener conto del fatto che alcune delle interpretazioni più comuni del fenomeni in corso non solo non aiutano, ma ostacolano la loro comprensione. In particolare, le ipotesi del determinismo tecnologico, del divario tecnologico e del dualismo digitale. Questi tre pregiudizi si radicano nella frattura che la modernità ha introdotto in ciò che è originariamente un intero, a partire dalla dissoluzione dell’unità di corpo e anima. Non solo separazione, ma contrapposizione e lotta per il dominio assoluto, negando tutto ciò che può costituire un limite all’espansione del sé: si afferma un umanesimo che per assolutizzare l’uomo rimuove Dio (diventando così disumano, CV, 78) e produce da una parte un ‘puro-spirituale’, come lo chiama Guardini, che di fatto diventa astratto, e dall’altra parte un puro materiale, manipolabile, equiparato a un meccanismo. Trionfa quella che Heidegger chiamava “macchinazione” (Machenschaft), ovvero l’affermarsi della tecnica come principale orizzonte di senso dell’esperienza (Lo spirito della liturgia, 61).

Questa reificazione della tecnologia, che diventa insieme seducente e pericolosa, può essere esemplificata da una seconda metafora, che vede i social media dalla parte degli immigrati digitali, e tradisce un pregiudizio dualista: quella della torta. I social media attirano, danno soddisfazione, sono piacevoli, ma sono dannosi e «fanno male» perché impediscono di nutrirsi di sostanze più «sane». C’è dunque un rapporto «a somma zero» tra tempo speso in Rete e tempo speso in altre attività più formative. Questa prospettiva, impostata così, è sbagliata perché non considera il significato dei Social Media per i giovani (che non è quello degli adulti) e perché carica di negatività un ambiente che invece ha alte potenzialità, mentre le criticità sono ampiamente diffuse anche nel mondo offline. L’ambiente digitale non è un mondo parallelo o puramente virtuale, ma è parte della realtà quotidiana di molte persone. Peraltro, dualismo, individualismo e nichilismo sono peraltro parte di un’unica svolta culturale, la cui cifra è l’individualismo.

In questo processo autoreferenziale il sapere della fede è stato prima combattuto come nemico della ragione e della libertà, fino a perdere la sua evidenza sociale e lasciare il posto a un analfabetismo religioso diffuso. Una ricerca del Pew Research Institute del 2012 (‘Nones’ on the Rise, oct. 2012, http://www.pewforum.org/uploadedFiles/Topics/Religious_Affiliation/Unaffiliated/NonesOnTheRise-full.pdf) dimostra che in tutto il mondo cresce la percentuale dei ‘nones’, i privi di ogni affiliazione religiosa che, diversamente dagli atei e dagli agnostici, non si pongono neppure il problema e non sentono, né cercano, alcuna appartenenza religiosa. Un adulto su 5 oggi in America lo è. La non-affiliazione è generazionale e legata a un ‘difetto di trasmissione’: la maggior parte dei ‘nones’ ha 18-24 anni (32%) mentre la percentuale scende con l’età, e la più bassa è quella degli over 65 (9%).

L’evangelizzazione oggi si trova dunque a operare in un clima di diffusa illiteracy, di neo-analfabetismo religioso.

Non può più dar nulla per scontato, ma neppure deve combattere con le derive dualiste che anche la religione ha in parte subito nella modernità. In molti casi, si è infatti davanti a una vera e propria «tabula rasa».

Ma con un duplice vantaggio, sul versante della relazionalità e su quello della «integralità»: i ragazzi oggi sono infatti molto meno attratti dall’individualismo autoreferenziale (che è piuttosto dei loro genitori) e molto più dalle forme iper-relazionali e neo-comunitarie che la rete sembra offrire (“mai senza l’altro”); e in secondo luogo i giovani oggi hanno una sensibilità integrale che li rende più ricettivi a una proposta antropologica non mutilata, ma unitaria e integrale (tutto l’uomo e tutti gli uomini). Come scriveva McLuhan, i giovani «Vogliono immergersi nelle cose e realizzare così l’annullamento dell’io individuale, che e’ un prodotto dell’alfabeto e del mondo visivo a esso connesso» (La luce e il mezzo, p. 111). Con loro funziona perciò un approccio «olistico», dato che «sono interamente conquistati da questo mondo elettronico [oggi diciamo digitale] che è acustico, intuitivo, olistico, cioè globale e totale» (ivi, p. 112). Anche se vanno accompagnati oltre il livello dell’immediatezza e della superficie.

2. Ripensare l’educazione alla fede

Il desiderio di relazione e le caratteristiche dei nuovi media (imparare facendo, interattività e orizzontalità relazionale, condivisione e costruzione collettiva del sapere) sono uno stimolo prezioso per ripensare il processo educativo in chiave di maggiore reciprocità, con la capacità da un lato di lasciarsi interrogare dalle domande dei giovani, riformulando a partire dalle loro inquietudini le modalità del nostro intervento (che sarà più maieutico che istruttivo) e dall’altro utilizzando un linguaggio capace di parlare alle loro vite, come era quello in parabole di Gesù, e allo stesso tempo di accompagnarli oltre il piano dell’immediatezza verso il senso più autentico dell’esistenza.

Rispetto al primo punto vale sempre, ma a maggior ragione nell’era digitale della partecipazione, quello che De Certeau scriveva sull’educatore ormai quasi mezzo secolo fa: il vero educatore è chi sa lasciarsi educare, che significa prima di tutto ascoltare il contesto, lasciarsi interpellare dalle domande, delle inquietudini, anche dalle provocazioni e riformulare il proprio sapere sulla base delle esigenze del presente. Un esercizio utile perché costringe a uscire dall’idea di un sapere come «deposito» e mobilitare le potenzialità di farsi sapienza viva. Solo se sentono il messaggio plasmato da questo «lavoro», ovvero dalla vita di chi comunica (che diventa così un testimone) i giovani sono disposti ad ascoltare, e lo fanno con interesse. L’educazione non è una trasmissione, ma un «lavoro affinché la verità conosciuta diventi realtà» .

Circa il secondo punto relativo al linguaggio, vorrei operare un approfondimento sulla necessità di una comunicazione che sia non fredda e cerebrale, ma coinvolgente e multitasking. Una comunicazione, cioè, che coinvolga tutta la persona, con la sua corporeità e affettività, e non solo la mente. Ricomponendo la frattura tra spirito e corpo, mente e affetti, si ricrea quella totalità originaria capace di rigenerare ogni azione. Il fare quindi non è puramente espressivo, ma diventa realmente formativo: in esso si realizza una sintonia tra interiorità ed esteriorità, tra spirituale e corporeo, tra fede e vita che può essere man mano resa più profonda e piena. E il linguaggio non è più fatto solo di parole, ma anche di gesti e silenzi.

Non si tratta quindi di curare con esasperazione l’esteriorità (che peraltro non deve essere abbandonata, come troppo spesso accade, alla sciatteria), ma di evitare il doppio rischio «del teatro e dell’armeggio»(esteriorità esasperata) e del devozionismo individualistico.

Come scriveva Guardini agli inizi della modernità, oltre che un’epoca di crisi religiosa la nostra è anche un’epoca di «crisi liturgica». Che richiede, per essere superata, proprio l’abbandono del dualismo e la ricostruzione dei nessi simbolici che restituiscono l’umano alla sua integrità, «come quell’essere in cui corpo è spirito, esterno e interno costituiscono un’unità» .

L’azione, e non solo il discorso, come luogo della formazione è una via da praticare oggi: ricreare esperienze immersive, a partire da quella esperienza polisensoriale che è la liturgia. Ma anche avvicinando i giovani alla figura di Gesù attraverso una narrazione che utilizzi diversi codici e linguaggi (dal teatro – anche praticato- alla danza, alla pittura e scultura) e che sfrutti le potenzialità immersive degli ambienti virtuali: se non si può visitare il cenacolo di Leonardo (ma anche dopo averlo fatto, per fissare l’esperienza e soprattutto i suoi significati) si può utilizzare l’immersione virtuale nella scena per riviverla dall’interno, attraverso le tante applicazioni per tablet e PC ormai in commercio, che utilizzano le tecnologie di «realtà aumentata».

Il linguaggio verbale beninteso non va messo da parte, ma deve rinnovarsi e recuperare tutta la sua capacità simbolica. Per questo, come afferma lo stesso Benedetto XVI: «La capacità di utilizzare i nuovi linguaggi è richiesta non tanto per essere al passo coi tempi, ma proprio per permettere all’infinita ricchezza del Vangelo di trovare forme di espressione che siano in grado di raggiungere le menti e i cuori di tutti. Nell’ambiente digitale la parola scritta si trova spesso accompagnata da immagini e suoni. Una comunicazione efficace, come le parabole di Gesù, richiede il coinvolgimento dell’immaginazione e della sensibilità affettiva di coloro che vogliamo invitare a un incontro col mistero dell’amore di Dio. Del resto sappiamo che la tradizione cristiana è da sempre ricca di segni e simboli: penso, ad esempio, alla croce, alle icone, alle immagini della Vergine Maria, al presepe, alle vetrate e ai dipinti delle chiese. Una parte consistente del patrimonio artistico dell’umanità è stato realizzato da artisti e musicisti che hanno cercato di esprimere le verità della fede» .

Un linguaggio simbolico è il solo capace di esprimere l’unità della persona che è fatta di razionalità e di emotività e che non va mai essere posta di fronte ad un’alternativa tra le due forme di conoscenza del reale. Sarebbe come dire al bambino di scegliere tra il padre e la madre (!). E’ questa frattura che va sanata perché impoverisce la cultura, oltre che noi stessi. Lo scriveva anche McLuhan: «Esistono due aspetti in ogni cosa, l’uno concreto e l’altro mistico, entrambi utili e fecondi» . Escludere lo spirito, negare l’infinito (o almeno l’infinito «verticale»), sottoporre ogni aspetto della realtà ad uno sguardo oggettificante è, per usare le parole di Florenskij, «tentare di strappare il velo da ciò che è misterioso, per illuminare tutto con una luce artificiale». Una luce che fa solo male agli occhi e ci rende spenti. Chi ha detto cose insuperabili sulla necessità di assegnare un ruolo importante al «cuore», all’immaginazione e agli «affetti» nella vita di fede, pur senza mai indulgere ad una versione soggettiva e sentimentale della ricerca religiosa, è il Beato Card. Newman. Di fronte alla crisi della cultura del suo tempo, Newman cercò di ampliare l’agenda del pensiero sulla fede e di rendere giustizia alla grande ricchezza della tradizione cristiana. Nella sua visione l’orizzonte religioso diventa reale non grazie a una intelligente argomentazione, ma soltanto quando «il cuore è vivo». In assenza di questa qualità di autentica ricerca, non possiamo arrivare al riconoscimento attivo che è la fede, la quale porta in sé la propria speciale certezza. In altre parole, Newman ebbe il coraggio di sottolineare che in materia di fede quello che può essere espresso tramite il pensiero è meno importante delle disposizioni, dei desideri e degli stati della mente. E attribuì una particolare rilevanza all’immaginazione al punto da operare una netta distinzione tra l’assenso reale (avrebbe potuto dire esistenziale) e quello nozionale. Se la verità religiosa non tocca in qualche modo l’immaginazione, che è cosa diversa dalla fantasia, non potrà essere vissuta in maniera personale. Per questo Newman assegnò un ruolo chiave nella battaglia per la fede all’immaginazione, al punto da sostenere che l’immaginazione, non la ragione, è la grande avversaria della fede. Nella sua visione infatti l’affermazione ‘esiste un Dio’ può essere formulata a due livelli completamente diversi. Può rimanere un’adesione fredda e inefficace quando le immaginazioni non sono affatto sollecitate e quindi i cuori non si infiammano. Ma la stessa affermazione può determinare una rivoluzione nella mente ogni volta che venga imbrigliata dall’immaginazione e accolta con autentico assenso. La fede non nasce dal ragionamento in senso stretto, eppure è profondamente ragionevole. Essa non rifiuta l’intelletto, ma ha bisogno di una certa qualità di indagine per avere una visione più ampia che le permetta di comprendere zone meno esplicite come i desideri, le emozioni e le attitudini. La fede è una verità a cui bisogna aderire come fosse una decisione, eppure è di più di un salto nel buio di un abbandono impulsivo .

3. Fare catechesi: iscrivere nel presente il nome di Gesù

Il terzo passaggio riguarda, infine, più specificatamente la figura del comunicatore della fede che sempre più deve essere capace di farsi «medium»: come scriveva McLuhan, medium è tutto ciò che introduce un cambiamento, dove il cambiamento è la conversione operata in noi dalla buona notizia e dall’incontro che ciascuno può realizzare con Cristo. Rispetto al quale il catechista può essere «facilitatore», «presentatore» (chi introduce qualcuno a qualcun altro, appunto); forse anche un po’ «custode» che si preoccupa che le porte siano sempre aperte, e che tutti si sentano accolti e invitati ad entrare. Più in generale, il comunicatore può prima di tutto testimoniare e raccontare i modi del proprio incontro, sperando di poter divenire «contagioso». Tenendo conto che oggi nessun sapere passa fuori dalla relazione .

Oggi non si può ritenere la rete una “moda passeggera”, se non al prezzo di lasciare questo ambiente, così importante per tanti, completamente sguarnito della proposta cristiana. Che invece siamo chiamati ad annunciare fin agli estremi confini della terra, senza scoraggiarci ma anche senza rinunciare, né arroccarci su prassi ormai inefficaci; e sapendo di operare in un contesto difficile, avendo anche degli errori da scontare. Anche nella fede c’è «bassa natalità».

Il punto di partenza dell’evangelizzazione oggi non può essere l’universale, ma il presente come occasione di cogliere la presenza di Dio e come orizzonte della nostra prassi. Lo scriveva già Guardini: «Dovevo chiedermi non solo che cosa vale sempre, ma anche che cosa è vivo oggi. (…) Infatti le scelte di oggi portano molto lontano: si risvegliano nuove forze, nascono nuovi comportamenti, pur ancora incerti, ancora senza nome. Molto dipende da quale nome verrà imprevedibilmente scritto nel presente. Questi nostri tentativi vorrebbero cooperare perché nel presente fosse scritto il nome di Gesù’».

In che modo l’evangelizzazione può favorire questa «iscrizione del nome»? Si può immaginare un orizzonte con quattro centri di attenzione.

Il primo, preliminare, riguarda la conversione: come si evince dall’etimologia, il termine indica insieme l’atto e l’effetto del capovolgimento, del cambiamento di direzione. La conversione non è solo interiore, ma è di tutto l’essere umano. Una espressione molto fortunata di Newman sostiene che: «Vivere significa cambiare ed essere perfetti significa aver cambiato spesso». E’ tratta dal suo studio sullo sviluppo della dottrina, un testo scritto a ridosso della sua conversione al cattolicesimo, nel 1845. Ed è stata per lui un riferimento e per tutta la vita una caratteristica del suo pensiero. All’età di 15 anni era stato affascinato dalla frase: «La crescita è l’unica prova della vita». Parecchio tempo dopo, le teorie di Darwin non lo turbarono, come invece accadde a molti suoi contemporanei.

Il secondo “fuoco” di attenzione riguarda il rapporto con Dio: la liturgia è simbolica proprio perché ci mette in relazione, anzi in contatto con l’alterità che più ci costituisce, e che trova corrispondenza dentro di noi. Il simbolo apre sempre ad altro, con cui è intimamente e necessariamente connesso (si potrebbe aprire un capitolo su come la linguistica contemporanea abbia insistito nel voler definire il simbolo come «segno arbitrario», ma non ce n’è il tempo). La crisi liturgica è una crisi simbolica, e la nostra è un’epoca idolatrica perché rifiuta l’elemento di alterità che il simbolo porta con sé. Rieducare al simbolico significa riconoscere che noi siamo simboli, fatti a immagine e somiglianza di Dio, e che con Lui formiamo una unità inscindibile. La catechesi oggi deve essere decostruzione degli idoli (e qui gli spunti certo non mancano) e riscoperta della dimensione simbolica delle nostre vite; nella gioiosa gratitudine, e non nel sentimento di perdita di autonomia. La fede realizza una vera ‘realtà aumentata’, riconoscendoci in connessione costante col nostro creatore.

Il terzo centro di attenzione riguarda la figura del mediatore perfetto, che è Gesù: come fare concretamente a vivere il paradosso di una presenza piena e di un distacco che rende liberi ce lo ha insegnato Gesù, che non ci chiede nulla che prima non abbia fatto per noi, e che ci ha mostrato come via, verità e vita possano e debbano costituire una unità. Che è dinamica, originale, in continuo cambiamento così come lo sono le circostanze, i contesti e le fasi della vita, ma che riesce a mantener uno ‘stile’. Stile non è sinonimo di glamour, di look o di apparenza alla moda e quindi variabile, ma, al contrario, indica una profondità (per metonimia, lo stilo da strumento appuntito indica il solco, la traccia indelebile che consente di lasciare; dallo stile procede l’azione: stilare significa infatti procedere, praticare).

Il comunicatore, a fronte di tanto bisogno e richieste di amicizia, magari anche su Facebook, può mettere in connessione col “profilo’”di Gesù, aiutare a diventare suoi amici. Un’amicizia fonte di straordinaria libertà e forza, come sintetizzato dalle bellissime parole di Giovanni: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda» (Gv 15, 15-16).

E, infine, il tema della vita eterna. Una delle “accuse” che vengono rivolte ai cattolici, e che rende poco attraente il messaggio per le giovani generazioni “olistiche”, è il (presunto) dualismo: anima contro corpo, sacrificio contro pienezza, vita eterna contro vita su questa terra. Questo luogo comune, nel clima di pregiudizio e “nescienza” diffusa che abbiamo descritto, non è facile da smontare. Ma la sua natura ideologica è veramente subdola, perché capovolge la verità: se c’è un messaggio antidualista oggi è proprio quello cattolico, che si fonda sul l’incarnazione, ovvero sull’unità nella differenza. Questo vale anche per la nostra vita: non dobbiamo mortificarci e soffrire sperando di avere un giorno una ricompensa. Siamo invece chiamati a una pienezza (dove il sacrificio è la capacità di rendere sacra, e non di mutilare la nostra umanità) che si realizza già su questa terra. La vita eterna non è un’altra vita, ma comincia su questa terra. Aiutare a sperimentare la pienezza e la bellezza di dimensioni che la nostra cultura ingiustamente e ideologicamente presenta come mortificanti (il servizio, la vicinanza agli ultimi, agli anziani, ai malati, la non rimozione della morte dal nostro orizzonte esistenziale) è una via per assaporare e apprezzare il gusto di una pienezza sempre da raggiungere, e proprio per questo oggetto di un desiderio che tiene in movimento e rafforza nel percorso intrapreso. Mantenere viva la scintilla di questo desiderio è un compito, delicato e prezioso, del catechista e di ogni educatore.

Tornando, per concludere, al rapporto tra evangelizzazione e nuovi linguaggi possiamo riconoscere a questo punto che il tecnologico non produce l’antropologico, ma è la fede vissuta nella carità, o la carità illuminata dalla fede, che consentono all’essere umano di realizzare la sua pienezza e trovare risposte, o almeno direzioni, per le sue domande più profonde.

Lo scriveva anche Guardini in un testo del 1923, che costituisce una replica profetica allo spot che abbiamo visto in apertura: «Educatori molto seri hanno indicato il fatto che per la formazione dell’uomo d’oggi non bastano il mero dire, lo spiegare intellettuale, l’organizzare formale. Che gli organi del guardare, del fare, del dar forma devono essere risvegliati e coinvolti entro il processo formativo; che l’aspetto musicale è più di una mera decorazione; che la comunione significa altra cosa da uno stare a sedere insieme, ma invece solidarietà nell’atto dell’esistenza» .