Esequie di Federico Quassoni

Giobbe 19, 1.23-27; Sl 22; Mc 4, 35-41
09-02-2019

“Si vive di più andando cinque minuti al massimo su una moto come questa, di quanto non faccia certa gente in una vita intera”, così ha detto una volta Marco Simoncelli. Penso che Federico sottoscriverebbe volentieri la dichiarazione di quel grande campione che l’ha preceduto nella stessa esperienza di una vita intensamente e brevemente vissuta. L’altro ieri, in realtà, Federico stava facendo il suo ultimo giro prima di lasciare la moto per una scelta di vita che l’avrebbe allontanato da essa, ma non dai motori. Perché la moto non è solo un pezzo di ferro; penso che abbia un’anima perché è una cosa troppo bella per non avere un’anima. Quale? La moto ha l’anima che, quasi per magia, libera l’energia imprigionata nel cuore degli uomini. Per questo a piedi si cammina, in macchina si viaggia, in moto si sogna. Andare in moto vuol dire guardare le cose non dal chiuso di un abitacolo, dentro una situazione di separatezza, ma radente terra, dove più che i moscerini si intercettano i lombrichi. C’è da imparare da questa filosofia di vita che invita a uscire dal nostro isolamento, dove spesso evitiamo il contatto con la realtà e ci costringiamo a vivere dentro situazioni protette, ma disumanizzanti.

Federico amava la vita e di certo non poteva prevedere che la moto prendesse un’altra strada. Ma tant’è! Nella vita accade l’imprevisto. E’ il senso di quello che nella pagina evangelica accade, quando improvvisamente «si levò un turbine impetuoso di vento che spingeva le onde nella barca e già ne era piena». La vita non è un procedere senza incognite. E’ piena di insidie. Puoi beccarti una pallottola mentre stai con la tua ragazza davanti a un bancomat, in un tranquillo sabato sera; puoi ritrovarti dentro un incidente stradale senza prevederlo; puoi essere sommerso dalle onde mentre cerchi un po’ di libertà insieme ai tuoi bambini, come accade nel Mediteranneo in questi anni. Ciò che conta è avere la forza di gridare al Maestro, come fanno i discepoli: «Maestro, non ti importa che noi andiamo perduti?». Gridare nella direzione di Gesù è ammettere che la vita ci supera. E da soli non ce la facciamo. Oggi tutti siamo diventati restii a gridare verso Dio. Siamo come sonnambuli che vivono senza sapere che stanno sull’orlo di un precipizio, ma si lascia che tutto vada avanti senza pensarci. Federico ci ammonisce a vivere intensamente, senza sprecare nulla dell’esistenza, facendo scelte coraggiose e controcorrente, ma ci fa pure gridare verso Dio. Solo Dio infatti ci garantisce quello che Giobbe lascia intendere: «Dopo che questa mie pelle sarà distrutta, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero».