Omelia nella solennità di Maria Santissima Madre di Dio

Basilica Cattedrale di Santa Maria, Rieti (Gal 4, 4-5)
01-01-2017

«Quando venne la pienezza del tempo». Basta questa affermazione dell’apostolo per lasciarci sopraffare dal fascino e dal tormento di un anno che sta per chiudersi. Per qualcuno il tempo non esiste, sarebbe poco più che una convenzione sociale, o un susseguirsi casuale di istanti, frammenti da collezionare singolarmente. In realtà, dietro lo scorrere inesorabile delle ore si cela la nostra vita. Paolo, anzi, sembra insinuare una cosa: il tempo non passa, ma matura, cioè ci fa crescere. Tale maturazione non è legata ad eventi tecnologici o catastrofici come si potrebbe pensare, ma soltanto a un fatto: l’avvento del Figlio che ci rende a nostra volta figli. Il tempo così non sarà più vissuto con rimpianto o rassegnazione, ma come occasione per crescere in questa consapevolezza: siamo figli e non schiavi. Al di là delle immagini: si tratta di capire se siamo in gabbia oppure no. Ciò che fa regredire o maturare è solo questo.

Se guardiamo al 2016, la tentazione di definirlo un anno orribile è inevitabile. Il terremoto ancora è dentro i nostri sguardi e sotto la nostra pelle. E tuttavia anche lo scorso anno si disse che era stato orribile. Non così tanto come quest’anno.

In realtà, il tempo consiste nell’accogliere o meno il Figlio, che ci strappa alla nostra condizione di “orfani”, che ci rende aggressivi. Si può essere liberi anche dentro una condizione compromessa esteriormente, come è la vita di tanti che sono in containers o attendono di tornare ad Accumoli o ad Amatrice. Si può essere schiavi anche dentro una situazione che presenta tutti i vantaggi di una vita spensierata e allegra. Il filo su cui corre la nostra libertà è quello interiore di chi sa di essere “affidato” a Dio, oppure “gettato” nel mondo. In altre parole: se ci sentiamo orfani, sopravvissuti, in lotta contro tutti. Oppure affidati alle buone mani di Dio, in costante divenire, insieme a tutti gli altri. Se il terremoto resetta tutto, costituisce pure un nuovo inizio che non può essere la semplice prosecuzione del passato. Più che costruire “com’era e dov’era”, dobbiamo inventarci una forma nuova di presenza che rigeneri i rapporti come “tra figli” e non come “tra schiavi”. In particolare: che trasformi l’aggressività che ci è così connaturale in propellente per la ricostruzione. Il nostro ideale non è mai il singolo che, orfano dei legami, si scaglia contro il mondo.

Il 2017? Sarà quello che la nostra umanità vorrà. E consisterà nell’essere più aperti, più grati e più sensibili. Come Maria che assiste al prodigio del suo Figlio che concepisce dentro di sé, dopo averlo concepito nel suo cuore. Ha scritto Goethe: «Tutto ciò che trascorre rimane come impronta. Ciò che è inafferrabile si mostra qui come presenza. Ciò che è indefinibile ritrova qui la sua parola». Buon Anno!