Omelia in occasione della visita a Cortona con i presbiteri e diaconi

Giovedì della XI settimana per annum (2 Cor 11,1-11; Sal 111; Mt 6,7-15)
20-06-2019

Giovedì della XI settimana per annum (Cortona coi presbiteri e diaconi)

(2 Cor 11,1-11; Sl 111; Mt 6,7-15)

Corinto era una città portuale che affacciava su due mari. A differenza di Atene che era la culla della cultura, Corinto rappresentava il “sol dell’avvenire”. Paolo evangelizza Corinto e se ne va. Ma poi scrive due lettere di fuoco in cui oltre a difendersi dall’accusa di essere debole, interessato ed eretico, spinge la comunità dilaniata da divisioni interne in tre direzioni. Ricorda, anzitutto, che il battesimo è ciò che fa uguali e unisce in profondità. Quindi, precisa che la croce è ciò che salva: la stoltezza dell’amore redime. Infine, sostiene che l’Eucaristia riflette lo stato della fede cristiana.

Il battesimo ricorda che siamo preti per la gente. Tutto va visto a partire dalla comunità a servizio della quale viviamo. E non viceversa. Il pastore senza il gregge è come un essere senza scopo. La nostra ragion d’essere è favorire la soggettività dei laici e suscitare il senso della corresponsabilità.

Solo la croce redime. Il prete è definito da K Rahner alla fine degli anni sessanta come “l’uomo dal cuore trafitto”. Non dice “dal cuore spezzato” che evoca un’affettività oggi assai diffusa fatta di narcisismo, autocompiacimento, psicanalisi. Qui si parla di “cuore trafitto”, ad imitazione di Cristo che lascia venir fuori dal costato “sangue ed acqua”. Ciò che fa di noi non delle vittime ma dei guaritori feriti è sublimare la sofferenza e farne una prova d’amore. Soprattutto ci vuole tempo e pazienza: «Sit amoris officum pascere dominicum gregem!» (S. Agostino).

Infine, l’Eucaristia è la forma della vita Cristiana che loda, benedice, ringrazia Dio per i frutti della terra. Essere una comunità eucaristica è il contrario di una comunità arrabbiata, intristita, ripiegata su se stessa.

Oggi ci siamo presi una pausa per ritrovare lo scopo della nostra vita, cioè la gente; per vivere il tempo con pazienza e diventare così uomini eucaristici, cioè dal cuore trafitto, come nella meditazione del grande teologo gesuita che mi permetto di sottoporre distesamente alla vostra attenzione.

«Il sacerdote di domani sarà un uomo cui gli adulti si rivolgeranno, anche se la società borghese non gli affiderà più i figli. Sarà un uomo che sopporta, nel senso pieno della parola, la pesante oscurità dell’esistenza insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle.

Ma saprà che la tenebra trova la sua origine e il proprio felice compimento nel mistero dell’amore vittorioso, nell’assurdità della croce. Sarà (altrimenti non sarà sacerdote) un uomo capace di ascoltare, un uomo per cui ogni singolo uomo è importante anche se non conta nulla in campo sociale o in campo politico. Sarà un uomo al quale ci si può confidare, che esercita o cerca di esercitare, come meglio può, un mestiere da pazzo, quello di portare non solo i propri pesi, ma anche quelli degli altri. Un uomo che, pur avendo tutte le possibilità, non partecipa alla caccia disperata e nevrotica al denaro, al piacere e a tutti gli altri analgesici contro la tragica delusione dell’esistenza. Dimostrerà invece con la sua vita che la libera rinuncia nell’amore del Crocifisso non solo è possibile ma è anche capace di liberare.

Il sacerdote di domani non sarà colui che ricava la propria forza dal prestigio sociale della Chiesa, ma avrà il coraggio di far sua la non-forza sociale della Chiesa. Egli crederà che la vita viene dalla morte, che l’amore, l’altruismo, la parola della croce e la grazia di Dio posseggono energie sufficienti per realizzare l’unica cosa che in fondo importi: che cioè l’uomo accetti con fede e con speranza l’inconcepibilità del proprio esistere, poiché in esso regna l’inconcepibilità di Dio, il quale partecipa se stesso come salvezza e come amore di perdono. Il prete di domani sarà un uomo con una professione quasi ingiustificabile da una visuale profana, perché il suo successo più autentico scomparirà sempre nel mistero di Dio. Non sarà più lo psicoterapeuta vestito con il costume ormai fuori moda del mago. Parlerà sottovoce, non penserà di poter illuminare con dispute patetiche l’oscurità che grava sulla vita o di spezzare lo stato di assedio in cui si trova la fede.

Con calma lascerà che Dio vinca dove lui personalmente risulta sconfitto, vedrà operare la grazia di Dio anche quando non riuscirà più ad offrirla all’uomo con la propria parola e con il sacramento in forme per l’uomo accettabili. Non misurerà la potenza della grazia sul numero di coloro che si accostano al sacramento della penitenza e tuttavia saprà di essere tutto preso dal servizio e dalla missione affidatagli da Dio, anche quando è convinto che la misericordia divina piò agire anche senza di lui. Insomma: il sacerdote di domani sarà l’uomo dal cuore trafitto e solo da questa ferita sgorgherà l’efficacia della sua missione.

Con il cuore trafitto: da un’esistenza che pare senza Dio, dalla follia dell’amore, dall’insuccesso, dall’esperienza della propria miseria e profonda problematicità. Ma sarà anche un uomo convinto per fede che solo questo cuore potrà dare la forza della missione, che tutta l’autorità dell’ufficio, tutta la validità oggettiva della parola, tutta l’efficacia dell’opus operatum dei sacramenti si potranno tradurre in concreto accadimento salvifico per grazia di Dio, solo se sgorgano da questa misteriosa sorgente, da questo cuore trafitto.

Sarà l’uomo dal cuore trafitto perché avrà il compito di ricondurre gli altri al centro più autentico dell’esistenza e cioè nell’intimo del loro cuore. Infatti sarà possibile arrivare sino al centro dell’esistenza, al cuore appunto, solo se lui e gli altri ne accetteranno la ferita dell’incomprensibilità dell’amore, che solo ha saputo vincere la morte. […] Infatti il sacerdozio diverrà sempre meno una entità sociale ovvia, dovrà sempre più venir esercitato nella diaspora della incredulità, della insignificanza sociale della Chiesa, della inesperibilità di Dio nel mondo. […] Ad ogni modo è certo che l’epoca costantiniana sta tramontando e non solo per la Chiesa, ma anche per il singolo sacerdote. La sua missione non gli viene più affidata da un piccolo Stato confessionale, egli non è più il papa nel suo villaggio né fa più parte con la ovvietà di un tempo dei notabili: scompaiono insomma privilegi e prestigio sociale. Un po’ alla volta gli rimane soltanto la sua essenza più autentica: essere l’uomo di Dio, l’homo religiosus, colui che crede, spera e ama. La situazione in cui vivrà gli proporrà sempre la domanda: “Sei quello che devi essere, cioè l’uomo dal cuore trafitto, vero tempio di Dio, e la fonte dello Spirito, vera forza della tua missione e della autenticità delle tue parole?”.

Ora se il prete di domani deve essere così (e lo è anzi se aderisce alle esigenze della sua chiamata, lo è, nelle dimensioni più profonde per grazia di Dio), se si troverà sempre di fronte ad esigenze che lo impegnano sino allo spasimo e si chiederà dove poter trovare quel che in se stesso non trova, dove cogliere l’esempio al quale poter guardare con semplicità archetipica: allora non potrà fare altro che una cosa: rivolgersi al Signore che serve, alzare gli occhi a colui che fu trafitto e venerare il cuore di Cristo. […]

Quando diciamo: Cuore di Gesù, evochiamo quel centro di primigenia unità, incomprensibile ma proprio per questo ovvia, che si manifesta e si compie nella storia del Gesù di Nazareth, che dà significato a questa storia e a ogni episodio accaduto in essa: il significato di Dio, della sua inconcepibilità, del suo amore, della vita che ritrova se stessa solo passando attraverso la morte. […] Questo cuore è soave solo se per soavità si intende quella santa maturità dell’amore che trova nella morte la propria vittoria, che viene capito soltanto da chi ne ha condiviso il tremendo destino. Il sacerdote di domani deve incontrarsi con questo cuore trafitto. Solo così potrà diventare anche lui l’uomo dal cuore trafitto. […] Chi possiede il coraggio di esperire la grazia, il coraggio della solitudine del cuore, della fedeltà, della coscienza che non cerca ricompense, il coraggio di amare quel che è più lontano come se fosse più vicino, costui scopre il suo misero cuore e comincia a capire cosa significhi veramente cuore».

(cfr. Karl Rahner, estratto da L’uomo dal cuore trafitto in Discepoli di Cristo, Roma, 1968