Omelia in occasione della Messa nella Cena del Signore

(Es 12, 1-8. 11-14; Sal 115; 1 Cor 11, 23-26; Gv 13, 1-15)
29-03-2018

«Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda di tradirlo». Così l’evangelista Giovanni ci offre il contesto interiore di quell’ultima sera, che è particolare non solo perché è l’ultima, ma perché è anche una sera contrassegnata da sentimenti contrapposti: da un lato c’è Gesù, in tutta la sua fragilità, che desidera trascorrere del tempo con i suoi per cercare conforto, e dall’altra c’è questa assurda distanza del traditore. E c’è perfino un gesto che è riportato poco dopo nel brano del Vangelo: quando Gesù cerca di offrire un boccone di pane inzuppato a Giuda, come segno estremo di amore e di accoglienza, e Giuda per tutta risposta prese il boccone, uscì subito, era notte.
C’è dunque questa contrapposizione che ci aiuta a situare anche noi in quell’ultima cena. Il Maestro che è profondamente turbato, e non solo a motivo della morte che presagisce con assoluta chiarezza (in questo brano di Giovanni per ben tre volte si dice che Gesù sapeva ciò che lo attendeva), ma per l’ostinazione del suo amico, che si perde nella notte del male.
La morte e il tradimento, in effetti, contraddicono il piano di Dio. Gesù li combatte, ne prova tristezza, si sente turbato. È proprio questo il paradosso di quella notte: Gesù non vuole morire, non cerca la sofferenza, ma sa pure che non esiste altra forza in grado di resistere al male che il suo amore.
Per questo, di fronte al tradimento del suo discepolo, altro non gli resta da fare che questo gesto estremo, che però, guarda caso, scatena la reazione esattamente contraria, perché pure di fronte a quest’ultimo gesto Giuda scappa via.
Vorrei allora che non perdessimo ciò che questa notte tragica ed esaltante allo stesso tempo ci suggerisce: non la vittoria della notte, della morte, del male, ma al contrario, la vittoria della luce, la vittoria della vita, la vittoria dell’amore. E tutto questo è resto esplicito dal gesto di Gesù, che anticipa quello che andrà a vivere di lì a qualche ora, attraverso l’offerta di sé nel segno del pane e del vino, come ci è stata raccontata dall’apostolo Paolo, che scrive questo testo a pochi anni da quell’evento: «Prese del pane e disse questo è il mio corpo che è per voi, fate questo in memoria di me. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese il calice dicendo questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, fate questo ogni volta che ne bevete in memoria di me».
“Fare questo” non è semplicemente un rituale polveroso e ripetitivo, ma è ciò da cui si sprigiona la forza per poter contrastare la violenza del male e la tristezza della morte che ci attanaglia da ogni parte.
Mi è capitato in questi giorni di andare a trovare una ragazza malata di Sla, trentenne, assolutamente vispa, capace di scrivere delle struggenti poesie, ma ingabbiata nel suo corpo. Colei che ha fatto sì che questa creatura, che era nata bene e che poi ha avuto dopo qualche anno questo problema, andasse avanti è la madre, che riesce con la forza del suo amore ogni giorno a restituirle la vita.
È così anche nella nostra esperienza più quotidiana: l’amore è più forte della morte, e noi sappiamo che è possibile contrastare il male con il bene: l’Eucaristia è questo segno che il signore Gesù lascia a noi cristiani, perché perpetuiamo questa certezza attraverso la nostra testimonianza.
È singolare che per sant’Agostino la Pasqua annuale sia definita come transitus christianorum, cioè come il passaggio dei cristiani. È chiesto anche a noi, se vogliamo fare Pasqua, di passare, come il Maestro in quella notte, dalle tenebre alla luce.