Omelia in occasione della Messa Crismale

(Is 61, 1-3a.6a.8b-9; Sl 89; Ap 1, 5-8; Lc 4, 16-21)
13-04-2022

Mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore”. Il profeta è inviato a “poveri”, che non sono tanto una classe sociale, ma quelli che diventeranno “sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio”. Sono questi gli interlocutori di Dio che si incontrano lungo la strada. Non più nel tempio. Per questo solo mettendosi in cammino “il lieto annuncio” può arrivare a destinazione. Al punto che camminare è evangelizzare! E si capisce il perché. Camminando, infatti, lo sguardo si affina: a piedi si diventa più sensibili ai dettagli del paesaggio, più disponibili all’incontro con tutto e con tutti, capaci di scoprire una bellezza che non si immaginava. Per questo, una semplice passeggiata ci restituisce quella pace e quella sapienza che ci mancavano; ci consente di interrogarsi su noi stessi e sulle relazioni che noi intessiamo; ci fa venire alla mente quella cosa che avevamo sulla punta della lingua, ma non riuscivamo a tirar fuori. Basta veramente una semplice passeggiata per essere nel mondo come non siamo mai stati.

Credo che l’arte del camminare, fuor di metafora, riguardi ogni cristiano e la chiesa intera, non a caso, “in cammino sinodale”. Lo si capisce dagli effetti che strada facendo si sperimentano. Il primo effetto è lo stupore che è “uno sguardo lungo e innocente sull’oggetto” (Adorno), cioè uno sguardo non schiacciato su occhiate, osservazioni fugaci e utilitaristiche, sempre più semplificate. Ed è pure uno sguardo “innocente”, ossia aperto alla ri-velazione dell’altro, non profilato come l’orecchio… da mercante. Per questo, beati quelli che coltivano lo stupore più della delusione, che sono magnanimi invece che risentiti. Beati quelli che intendono la chiesa non come una bancarella con gadget e articoli religiosi, ma appunto come uno sguardo “lungo e innocente”. Il secondo effetto è il rischio. Quando si cammina, non quando si viaggia con il GPS, siamo esposti all’incognito. Accade che ci si possa perdere. In ogni caso, l’imprevedibilità della vita fa convinti che non è “dietro”, ma “avanti” quello che ci attende. Beati quelli che sanno aspettare piuttosto che mollare la presa. Noi valiamo per quello che attendiamo: siamo dei piccoli mediatori: facciamo cose piccole; segnaliamo, coi nostri gesti, Colui che deve venire. Quando ci poniamo in questi termini, la vita diventa un’altra cosa. Infine, il terzo effetto è diventare complici del miracolo che Dio continuamente fa accadere. Ogni volta che ci ripetiamo che la vita “vale la pena”, ripartiremo liberi rispetto a tutto quello che la sfigura, come il terremoto, il Covid, la guerra.

Camminare è evangelizzare. Evangelizzare è camminare. Resta una domanda che ci trafigge alle spalle tutti senza distinzione: “ma da quanto tempo non gironzoliamo più per le strade fischiettando, o non percorriamo scorciatoie silenziose con un filo d’erba tra le labbra, e basta, senza fretta, né altre pretese?” (J. T.Mendoza).