Omelia in occasione della Festa di san Giuseppe a Nespolo

Gen 1, 26-2,3; Sal 90; Mt 13, 54-58)
30-04-2018

«Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (v. 31). Il racconto della creazione è pervaso da grande ottimismo che prende corpo in un augurio: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (v. 28). Pesci e mare, uccelli e cielo, essere vivente e terra descrivono il mondo della creazione che non va saccheggiato o, peggio, distrutto, ma va orientato alla fecondità e alla moltiplicazione degli umani. C’è dietro un’idea di sviluppo creativo che oggi sembra però contraddetto da due fatti: il benessere non c’è più e i figli sono sempre più rari. Insomma, siamo di fronte a «vite che non possiamo permetterci», come titolava un interessante dialogo con Zigmund Bauman. In effetti, anche nella nostra terra si registra un “terremoto” che spiega la desertificazione dei nostri paesi. A farne le spese sono soprattutto i più giovani che restano “bamboccioni” a vita. Di fatto, nonostante sognino, progettino, tentino di costruirsi un futuro nella maggior parte dei casi o restano in famiglia o scappano all’estero e non sempre per situazioni invidiabili.

Nel testo di Matteo emerge tra le righe un elemento non trascurabile dell’identità di Gesù che viene identificato, non senza una punta di disprezzo, come “il figlio del falegname”. Il che oltre a rimandare a Giuseppe fa scoprire l’esperienza di lavoro manuale che per trent’anni il Maestro ha vissuto, non come una iattura, ma come una possibilità di diventare veramente umano, cioè creativo.

Possiamo trarre due indicazioni dalla Parola per provare a festeggiare il lavoro che c’è e, soprattutto, quello che va creato.

La prima è che il progresso non è automaticamente lo sviluppo. Prova ne è il fatto che i poveri sono criminalizzati e chi resta indietro se l’è cercata. Lasciare che ognuno si faccia strada da sé esaspera però la competizione e crea insicurezza sociale. Bisogna ritrovare uno sguardo d’insieme perché diversamente non ce ne sarà per nessuno. L’edicola che abbiamo benedetto e che evoca la Trinità ci insegni l’unità nella diversità.

La seconda è che il lavoro non è una condanna, ma una vocazione. La tendenza è a far soldi più che a produrre ricchezza. Dobbiamo ritrovare il gusto e la bellezza del fare che ci restituiscono alla nostra identità di con-creatori. L’uomo ha bisogno di sporcarsi le mani con serietà, responsabilità e sacrificio. Senza il lavoro non c’è l’uomo. Ma è vero anche il contrario: senza l’uomo il lavoro non si crea.