Omelia in occasione della Domenica di Pasqua

Risurrezione del Signore (At 10, 34.37-43; Col 3, 1-4; Gv,20, 1-9)
01-04-2018

«Corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro». Chi corre più veloce è «l’altro discepolo», «colui che Gesù amava», cioè Giovanni. Corre più veloce non solo perché più giovane di Pietro. Che cosa è, infatti, la rapidità? Italo Calvino, nelle sue celebri Lezioni americane paragona la rapidità ad un cavallo che evoca agilità, mobilità, disinvoltura. Quel mattino di Pasqua la rapidità prende corpo nei piedi svelti di Giovanni che hanno la freschezza e l’energia del giovane che sa spingersi oltre le distanze e colmarle con il proprio impeto. La nostra società europea, italiana, reatina è vecchia perché abbiamo perso questa vitalità e preferiamo starcene in panchina o sul divano. Mentre è urgente essere rapidi: l’appuntamento con la vita esige prontezza per fare piazza pulita di tante indecisioni che non tardano a trasformarsi in stagnazione. La stessa ripresa economica e sociale a pensarci esige una rapidità diversa da quella che ad oggi è dato di constatare. Si richiedono persone rapide: capaci di assumersi responsabilità, idonee a gestire la complessità, pronte ad essere audaci, senza mai essere spregiudicate. Ci vuole, insomma, un cuore giovane e non rattrappito dal callo delle abitudini, così rassicuranti, ma anche così deprimenti.

«Vide e credette». Giovanni non solo arriva per primo. È anche quello che capisce subito che cosa è accaduto, constatando con uno sguardo furtivo il sepolcro vuoto. C’è chi ha parlato di “chiaroveggenza dell’amore” per dire che è stato rapido nel discernere la traccia, sia pure negativa, del Signore risorto. Credere è avere questo sguardo che sa decifrare i segni della resurrezione, sotto apparenza contraria. C’è “un ospite inquietante” nella nostra vita che ci ruba questo sguardo. Manca un fine: perché si vive? E poi, perché è meglio vivere che lasciarsi vivere? I giovani hanno compreso che noi adulti abbiamo rottamato questa domanda, ma non si rassegnano e, a loro modo, cercano di reagire. Non si accontentano di valori solo pronunciati a fior di labbra; non ci cascano dentro alle nostre ipocrite rassicurazioni, della serie “va tutto bene”; non si fanno bastare le cose, se questo vuol dire isolarsi nel cerchio magico dei propri interessi. E per questo sono inquieti e mai appagati. Conservare un pizzico di tale inappagamento è il segreto per imparare a credere.

«Non avevano compreso che egli doveva risorgere dai morti». Quest’ultima affermazione potrebbe disorientare. Ma come non comprendono ancora? È che resta sempre un “non ancora”: non basta credere e basta. C’è sempre la fatica di ogni giorno che richiede di prestare ascolto a quel che accade. Occorre imparare a sentire “il rumore dell’erba che cresce” per non perdere il filo e il senso. Pasqua allora è un cammino che si apre camminando, anzi correndo. Buona Pasqua!