Omelia in occasione della Commemorazione di tutti i fedeli defunti

(Gb 19, 1,.23-27a, Sal 27; Rom 5, 5-11; Gv 6, 37-40)
02-11-2016

Qualcuno è arrivato a dire, o a scrivere, che il terremoto è una punizione divina. Dovrebbe rileggere il libro di Giobbe. E magari anche le interpretazioni che ne sono state date. Già Kant, commentandolo, aveva mostrato l’insensatezza (e irreligiosità) di una ‘teorema della retribuzione’. Non possiamo interrogare questo tempo secondo la logica della retribuzione. Non ce lo meritiamo, perché accade? È umano, Giobbe passa da qui ma non si ferma qui.

Contro questo paternalismo di un Dio che premia e punisce Lévinas ha scritto: «Un Dio per adulti si manifesta […] attraverso il vuoto del cielo infantile»; la sofferenza «rivela un Dio che, rinunciando a ogni manifestazione pietosa, fa appello alla piena maturità dell’uomo totalmente responsabile» poiché l’uomo è chiamato ad avere «fiducia in un Dio che non si manifesta attraverso alcuna autorità terrestre».

Il Dio cristiano è un Dio per adulti. Questa consapevolezza ci aiuta a vincere la tentazione di un rapporto infantile e narcisistico con Dio, con un Dio «tappabuchi», come lo chiama Bonhoeffer. Ma soprattutto Ricoeur scrive pagine che sono luce per attraversare questo tempo buio. A partire da Giobbe suggerisce una visione sapienziale del male, che prende le mosse dal ‘cogito ferito’ dal crollo delle certezze e della pretesa di poter comprendere tutto con le nostre categorie. Senza dichiarare non-senso ciò che non comprendiamo. È un passaggio difficile, un passaggio di fede. Ricoeur individua tre tappe della saggezza:

– la prima è appunto il rifiuto di una idea retributiva: essere consapevoli che «Dio non ha voluto punirci».

– la seconda è lasciare spazio al dolore: «Fino a quando Signore?». Si può essere arrabbiati con Dio. È l’impazienza della speranza.

– la terza tappa è il momento del «credere senza garanzia». È riconoscere che per credere non c’è bisogno di spiegare l’origine della sofferenza. Non si ama Dio perché esaudisce i nostri desideri, né lo si odia se il male piomba nelle nostre vite. Giobbe, alla fine, è capace di amare Dio “per nulla”. Ciò significa uscire completamente dal ciclo della retribuzione, di cui la lamentazione resta ancora prigioniera.

È una saggezza attraverso la sofferenza (“nonostante”, ma anche “grazie a”, perché sempre il dolore ci dà occhi nuovi), nel faccia a a faccia con il Tu divino («ora i miei occhi ti vedono» Gb 42, 5). Un consenso al di là del desiderio. È «decifrare i segni della resurrezione sotto l’apparenza contraria della morte». Come ci suggeriscono le parole del Maestro di oggi.