Omelia in occasione del Venerdì Santo

(Is 52, 13 - 53, 12; Sal 30; Eb 4, 14-16; 5, 7-9; Gv 18, 1 -19, 42)
30-03-2018

«Se ho parlato male dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?». Così placidamente Gesù replica a una delle guardie che lo ha appena schiaffeggiato, durante l’interrogatorio di Caifa dopo la sua cattura. In effetti, l’evangelista Giovanni, a differenza dei Sinottici, sembra presentarci un Gesù distaccato, superiore agli eventi, sempre controllato. Ma non è un superman, con cui faremmo fatica ad identificarci. È piuttosto un uomo che sovrasta gli ometti che lo circondano (Caifa, Pilato, Pietro, le guardie) e capovolge la situazione. Così sulla croce Gesù dice – ed è la sua ultima parola – «tutto è compiuto» (non «tutto è finito»). E in questo modo, riscatta l’assurdità di quella fine cruenta, assegnandole un senso che va oltre la nostra comprensione umana. Grazie alla croce di Gesù, dunque, nessun uomo è solo, nessuna sofferenza è inutile, nessun sospiro è dimenticato, nessuna lacrima è versata invano, perché Dio porta tutto a compimento con l’amore, con il quale Gesù continua ad amare i suoi «sino alla fine».

C’è un’immagine che è la più idonea ad entrare nel paradosso di quest’uomo condannato a morte e che tuttavia non cessa di attirare tutti a sé. Gesù stesso vi fa riferimento quando a proposito della sua ora dice: «La donna quando partorisce è triste, perché è giunta la sua ora. Ma quando ha dato alla luce il bambino, non ricorda più la tribolazione, sopraffatta dalla gioia che un uomo è venuto al mondo» (Gv 16, 21). L’amore di una madre capovolge il dolore della partoriente. Così accade a Gesù Cristo che sulla croce rivela il suo essere l’uomo-per-gli-altri. Nel secolo di san Francesco si sviluppò una forte devozione alla croce, simbolo del nostro dolore. Oggi sembra la croce simbolo anche della ‘debolezza di Dio’ in questo mondo e del suo essere-per-gli altri, fino in fondo. Il che significa che a fronte dei nostri dolori ciò che conta è non pensare alle proprie angosce, ma lasciarsi trascinare da Cristo, condividendo le ansie e le tristezze del mondo. Così è la sofferenza dell’altro, e non la nostra, a diventare la misura di Dio e di essere uomo.

Acquistano un senso le parole di san Giovanni Crisostomo: «Grazie alla croce non viviamo più con il terrore del lupo, perché ci è accanto il Buon Pastore…» (PG 49, 395).