Omelia in occasione del secondo anniversario del terremoto

(Ez 37,1-14; Sal 107; Mt 22, 34-40)
24-08-2018

«Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?». La domanda posta ad Ezechiele rimbalza fino a noi e riecheggia i nostri interrogativi: «Potranno queste macerie risorgere? Tornerà ad essere abitato questo stupendo altopiano?». C’è un’altra domanda però che ancor prima si insinua come un tarlo: «Ma ne vale la pena?». È una domanda a tradimento più diffusa di quanto si pensi. Lo conferma il fatto che alcuni non sono più ritornati, che altri ci stanno pensando, che altri (il popolo delle “seconde case”) tornerebbero, ma non ci sono le condizioni. La domanda è scomoda, ma salutare. E costringe a chiedersi se crediamo o no alla rigenerazione di questa terra. Che è poi il simbolo del nostro Paese che va in frantumi: il ponte che si sbriciola, il canale d’acqua che travolge giovani vite, le Città che sono diventate invivibili. Il mondo è fragile. E l’uomo lo è ancora di più. Fortunatamente nel testo visionario di Ezechiele si fa strada insistentemente una parola messa in bocca a Dio. La parola è “spirito”. Di fronte alla fragilità della materia c’è soltanto una possibilità: l’impalpabile e sfuggente realtà dello spirito. Il testo non autorizza a dire di più, salvo aggiungere: «Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra».

Ma che cosa è lo spirito? E ha senso parlarne rispetto ad un mondo sempre più piatto? Gesù nel testo di Matteo taglia corto e ci indica la strada: “Amerai il Signore Dio tuo. Per poi aggiungere subito dopo: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Così dicendo non solo mette Dio e l’uomo dalla stessa parte, ma riconcilia definitivamente spirito e materia. È qui il punto. Vale la pena di restare o di tornare se ritroviamo lo “spirito” di questa terra che è unica come i tanti piccoli centri dell’Appennino, abbandonati in nome di criteri solo economici e funzionali. Vale la pena di affrontare la ricostruzione privata e pubblica, se la burocrazia non paralizza lo “spirito”, cioè la buona volontà, dei singoli e delle istituzioni. Vale la pena di vivere tra queste montagne se prevenzione e investimenti sulla viabilità rompono il cerchio dell’isolamento fisico. Si, ne vale la pena! Basta allargare lo sguardo oltre il presente, non vedere più solo macerie, ma gru! E questo grazie allo spirito di intelligenza, di responsabilità e di dedizione di tanti. In un diario rinvenuto dopo il terremoto si leggono queste tenere parole: «Domani sarà una grande giornata. Saremo in tanti ad Amatrice e ci sarà anche lui…gli piacerò ancora? Chissà se sarà ancora innamorato di me? Chissà. Domani lo saprò». Chi ha scritto non è più in mezzo a noi. Ma la sua attesa del domani è vera. Domani, non oggi, sapremo se – al netto delle cose fatte e di quelle ancor più numerose da fare – avremo conservato lo spirito che ci fa dire, a dispetto della realtà: «Sì, ne vale la pena!».