Omelia della veglia di Pasqua

(Lc 24, 1-12)
20-04-2019

È difficile attraversare la notte da svegli. Non solo quando si è malati, le tenebre allungano le ombre e accrescono le paure. Per questo i cristiani hanno imparato ad attraversare il buio della notte insieme. Dai tempi di Agostino la veglia pasquale diventa una metafora della vittoria della vita sulla morte. Del resto, anche ai nostri giorni esistono veglie ‘laiche’ che esprimono la stessa tensione. Non è forse da interpretare così la frenesia di chi fa tardi fino all’alba come tanti al sabato notte?

È l’alba – stando al racconto di Luca – quando le donne «trovarono che la pietra era stata rimossa dal sepolcro e, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù». C’è da ritenere che dopo aver attraversato tutta la notte in ansia per il dolore del Maestro scomparso dopo immani sofferenze, si ritrovino spiazzate da questo fatto che sprigiona una luce imprevedibile. A conferma di un paradosso: «perché la luce sia splendente, ci deve essere l’oscurità» (F. Bacone). È curioso: la nostra generazione ha un cattivo rapporto sia con la luce che con il buio e finisce per schermare l’una e l’altro. Di fatto l’inquinamento ottico in cui siamo immersi ci impedisce di accorgerci del buio, ma anche delle stelle (chi ha notato la luna piena di questa notte di pasqua?). E allo stesso tempo l’uso di occhiali dalle più diverse fogge non è solo un ossequio alla moda, ma anche un inconfessato desiderio: non esporsi alla realtà.

Da dove nasce allora la Pasqua? Non certo da noi. Le donne consapevolmente non si aspettavano più nulla. Ma inconsapevolmente erano spinte dall’amore per Gesù. Hanno custodito le sue parole,, perché le amano: in noi vive solo ciò che ci sta a cuore, vive a lungo ciò che è molto amato, vive per sempre ciò che vale più della vita. Una cosa è certa: «ciò che fa credere è la croce, ma ciò in cui crediamo è la vittoria della croce» (Pascal).