Omelia del Venerdì Santo alla Via Crucis

19-04-2019

«Inutile piangere. Si nasce e si muore da soli» (C. Pavese). Gesù non fa eccezione. Abbandonato da tutti, a parte Maria, qualche donna e il discepolo prediletto. Tutti, in ogni caso stanno “sotto” la croce. Ai nostri giorni la morte è scomparsa. Viene cioè ricondotta ad un fatto privato, di fronte a cui si prova disagio e si preferisce rimuovere al più presto. Così viene meno quella solidarietà verso chi sta per abbandonare la vita che era tipica dei nostri ambienti fino a qualche tempo fa. La rimozione della morte dalla vita sociale e la conseguente dissimulazione della morte – soprattutto davanti ai bambini – sfocia in un imbarazzo sempre più diffuso dinanzi al moribondo. Spesso non si sa cosa dire: le frasi sono convenzionali ed evitano accuratamente ogni riferimento alla questione cruciale, col risultato che il moribondo ancor vivo si senta già abbandonato.

Dinanzi a questa reticenza soltanto la filosofia ha opposto una qualche resistenza al punto da considerare il problema della morte come centrale per qualsiasi riflessione. «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto» ha lasciato scritto F. Rosenzweig. Così i filosofi hanno avuto cura di preservare la finitezza umana che rischia di essere oscurata da una falsa illusione. L’eclissi della morte conduce, senza accorgersene, verso una disumanizzazione perché si vuole l’uomo come un essere senza preoccupazioni, liberato dall’angoscia e da ogni senso del tragico. I morti sono imbarazzanti e dobbiamo liberarcene. Di qui secondo alcuni il boom della cremazione, il cui obiettivo è una civiltà senza cadaveri. Proprio mentre si esalta la corporeità nello sport, nella moda e nello spettacolo, si cerca di occultare la dimensione della fine.

Dinanzi al corpo del crocefisso non basta commuoversi, senza muoversi ad una più profonda comprensione della vita che mai può essere separata dalla sua finitezza. L’unica eternità umana è quella che può essere dischiusa dall’amore. L’amore all’interno di una vita finita. G. Marcel l’ha espressa cosi: «Amare qualcuno significa dirgli: tu non morirai». Nella finitezza del nostro amore noi sperimentiamo l’infinitezza del nostro essere.