«Non è qui» / 2

(Mc 16,9-20)
27-04-2018

Premessa

Il vangelo di Marco fu messo per iscritto intorno agli anni ’70 a Roma per una piccola comunità della diaspora, una minoranza perseguitata da ogni parte: dal potere politico, ma anche dalla stessa comunità ebraica. E’, dunque, uno scritto che serve a rincuorare i discepoli stretti nella prova della fede. Forse, per questa ragione lo scritto non si impose all’attenzione di tutti e rimase nascosto per molto tempo. Salvo essere riscoperto in epoca più recente (XIX secolo). Proprio perché attesta una visione tutt’altro che romantica della fede, con uno stile asciutto e nervoso di chi riduce al minimo i discorsi di Gesù e si concentra sugli atti. Non è un caso che l’evangelista Marco venga identificato con il leone, che si riferisce alla visione di quattro animali simbolici fatta dal profeta Ezechiele ( Ez 5-13; Ap 4,6-7).

Oggi meditiamo sull’ultima pagina del vangelo di Marco. Tutti, in realtà, concordano nel ritenere che questi ultimi versetti siano soltanto un’aggiunta posteriore, vista la loro assenza nei codici più importanti, Sinaitico e Vaticano. D’altra parte, senza questa interpolazione l’evangelo di Marco sarebbe privo di qualsiasi riferimento alle apparizioni del Risorto. Ma soprattutto, si chiuderebbe bruscamente, registrando soltanto la paura delle donne (“E quelle, uscite, fuggirono dal sepolcro, perché erano sconvolte dallo spavento, e dalla paura non dissero nulla a nessuno” v. 8). In tal modo, i versetti che andiamo ad ascoltare – dal 9 al 20 – pur non costituendo un happy end da favola, presentano con realismo la salvezza ‘a caro prezzo’. Infatti, il buono che emerge si fa strada attraverso il negativo, e non rimuovendolo. Quest’aggiunta chiamata deuterocanonica presenta, peraltro, due caratteristiche. La prima è che sembra essere una versione compattata dei racconti della resurrezione. In un versetto, ad esempio, si fa riferimento all’episodio dei discepoli di Emmaus su cui si dilunga Luca. La seconda caratteristica è che si tratta di un testo molto duro che non concede sfumature a dei ‘forse’ o dei ‘però’ o dubbi interpretativi e insiste molto sulla fede: quelli che credono sono salvati, quelli che non credono sono condannati. Si fa poi l’elenco dei segni che accompagnano quelli che credono.

Quanto detto in premessa sembra una sterile critica testuale, ma in realtà fa emergere un dato importante. I vangeli sono testi accuratamente vagliati e portano le tracce di una storicità che li rende affidabili. Di essi abbiamo addirittura manoscritti risalenti ai primi secoli cristiani. Ed è questa una felice eccezione se si pensa che libri di autori antichi molto celebri in realtà fanno riferimento ad epoche storiche di molto posteriori. Pur essendo i vangeli scritti da una comunità credente, essi non si sottraggono ad una analisi critica; il che fa la differenza rispetto ai cosiddetti vangeli apocrifi, che mostrano di essere chiaramente una rielaborazione artefatta e priva di credibilità storica.

Lectio

Spendiamo un secondo per chiederci che cosa nella conclusione ufficiale (Mc 16,1-8) dà a pensare. Di sicuro l’elemento-principe è la preoccupazione delle donne che si chiedono: “Chi ci rotolerà la pietra dal sepolcro?”. Questo è il punto di partenza su cui insistono tutti i Sinottici, troppo ricorrente per essere un fatto casuale. L’esperienza della resurrezione si fa strada quando si capisce che non è possibile ‘metterci una pietra sopra’ e voltar pagina. Per il semplice fatto che la pietra non è più al suo posto.

vv. 9-10

Qui è Maria di Magdala protagonista inascoltata dell’apparizione. Chi è questa donna? Al di là delle molte dicerie su di essa, si tratta di una persona senza né capo né coda. Dunque, una ‘poco di buono’, a cui il Signore si rivolge per primo.

v.11

E, infatti, non danno alcun credito a quello che la Maddalena sostiene e si chiudono nella più totale incredulità. Ma accade qualcosa di simile anche quando a dire di averlo visto risorto sono i due discepoli di Emmaus. “Ma neppure a loro credettero” (v. 13), annota il testo. E neanche quando appare agli Undici (v 14) si smuove l’ottusità dei credenti, tanto che il Maestro li rimprovera per la loro “incredulità e durezza di cuore”. E’ interessante che tutti siano credenti eppure sono increduli e duri di cuore. Come scrive un non credente come Erri De Luca, credente è il participio presente del verbo credere. Il che sta a significare che non si crede una volta per tutte, ma che possono coesistere nel credente aree di buio e di cecità che vanno continuamente diradate.

v.15

Ancora più sorprendente è il fatto che di fronte a gente così ottusa e dura di cuore, Gesù si rivolga per affidare loro l’annuncio del Vangelo. Ma come affidare a degli increduli la buona Novella? Eppure è quello che accade stando al testo di Marco. Gesù non attende che i suoi siano dichiaratamente credenti, ma li sfida in ordine ad alcuni precisi ‘segni’ che attestano se siano o no realmente credenti in Lui.

v. 17

“E questi sono i segni che accompagneranno quelli che credono”. Per Gesù proclamare il Vangelo non consiste nel dirlo correttamente, senza incertezze verbali, ma nel suscitare alcuni segni che dicono se si è o no credenti. Si dice infatti alla fine (v.20): ”Essi se ne andarono a predicare dovunque, con l’aiuto del Signore che confermava la parola coi segni che l’accompagnavano”.

v.17bis-18

Quali sono questi segni? Eccoli: “scacceranno i demoni nel mio nome, parleranno lingue nuove; prenderanno in mano i serpenti; e se anche berranno veleno, non ne avranno alcun male; imporranno le mani agli infermi e questi guariranno”. Sono cinque i segni che vengono proposti e tutti molto curiosi. Si tratta di segni biblici che si rifanno per lo più al linguaggio del Primo Testamento.

Il primo segno è “scacciare i demoni” che significa l’esperienza profonda di non essere totalmente padroni della propria identità. C’è sempre un angolo segreto, da qualche parte, che ci scappa di mano. I demoni sono quelli che oggi chiamiamo nevrosi, traumi, rimozioni. Avere come un altro sé dentro, in modi più o meno gravi, più o meno governati o addomesticati, è una delle cose con cui fatichiamo tutta la vita nel tentativo di contrattare .

Il secondo segno è “parlare lingue nuove”. Tra Babele e Pentecoste, per noi il problema è capirsi. Anche quando vogliamo molto bene ad una persona, abbiamo tutte le intenzioni di capirla, la conosciamo e la ascoltiamo con attenzione e l’altro fatica a dire quello che sente, alla fine però non è detto che ci si capisca. Abbiamo bisogno non di parlare la stessa lingua, ma di parlare una lingua nuova che ci consenta di capirci, senza distorsioni.

Il terzo segno è “prendere in mano i serpenti”, cioè governare il demone fuori, cioè reggere l’urto con la realtà.

Il quarto segno è “se berranno qualche veleno non farà loro alcun male”. Ciò che mangiamo e beviamo è il luogo della nostra fragilità e dipendenza. Mettiamo dentro ciò che è esterno a noi che si trasforma in noi. Il cibo può essere sostegno ma anche veleno. Il massimo dei disturbi della nostra società è quello con il cibo sia nella forma dell’anoressia che della bulimia e dell’obesità perché abbiamo un rapporto disturbato con il cibo.

L’ultimo segno è “imporranno le mani ai malati e questi guariranno”. Ancora una volta nel regime dei segni è un tocco. Toccare l’altro è sempre un bene o un male. Il segno della resurrezione è quando il nostro con-tatto guarisce e non crea dipendenza.

Questi cinque segni sono quello che si vede quando qualcuno crede.

v.19

Poi si dice: ”Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio”. Il capitolo 16 inizia con Gesù che non è nella tomba e finisce con Gesù che se ne va. Forse insistiamo troppo sulla presenza di Gesù, ma qui emerge di più l’assenza. Che in realtà rimanda alla grande attesa della sua venuta.

Meditatio

Traggo tre brevi spunti per la nostra riflessione personale.

Credere non è una condizione acquisita, ma è una sfida permanente. Si può essere formalmente dei credenti, ma nella sostanza “increduli e con il cuore indurito”. Per questo Gesù si interroga: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8). In realtà al tempo di Gesù la fede c’era e pure troppo. C’era la fede degli ebrei che però Lo rifiutano; quella della setta di Qumran che si isola dal mondo; quella di Roma che credeva nella sua potenza. Anche oggi c’è tanta fede in giro. Ognuno crede a qualcosa o a qualcuno. La fede che cerca Gesù è la fede di chi come la vedova cerca giustizia e di chi si rende vulnerabile. In una parola crede chi si de-centra, cioè si libera di sé e si apre a Dio.

I segni descrivono il combattimento della vita di ciascuno. Occorre scacciare i demoni che sono dentro e guardarsi da quelli che sono fuori. Solo così il credente mostra di vivere da risorto, stando in piedi, cioè libero, e non dipendente. Le dipendenze sono una cifra della nostra società post-moderna che in nome della libertà vive schiacciata da una serie di condizionamenti che la irretiscono. Quali sono le mie dipendenze più frequenti? Le sostanze, il giudizio degli altri, il successo…?

Infine, l’assenza di Gesù. Credere significa saper reggere l’attesa del Suo ritorno. Vivere l’ansia di chi aspetta Qualcuno che torni (complesso di Telemaco). Mi aspetto ancora qualcosa dalla vita oppure ho già rinunciato e vado avanti senza più alcun desiderio da coltivare e per cui saper attendere?