Maràna tha, Maran atha / 1

Lectio divina del vescovo con i giovani nel tempo di Avvento (Mt 24, 32-44)
25-11-2016

Premessa

Maranà tha! È una parola aramaica che significa «Signore, vieni!». Si tratta di un grido sgorgato dal cuore dei primi discepoli che è stato conservato da Paolo quando nella sua prima lettera ai Corinti conclude con le seguenti parole: «il saluto è di mia mano, di me Paolo: se qualcuno non ama il Signore sia anatema! Maranà tha!, vieni Signore!» (1 Cor 16, 21-22).

La lettera è scritta nel 57 d.C. ed è la più antica invocazione cristiana che ci è data di conoscere. Esprime bene l’anelito dell’uomo verso un evento risolutivo, che venga a sanare, a riscattare il vivere intriso dall’amarezza, dall’angoscia, dalla solitudine. Ma come viene Dio? Bussa alla nostra porta con gli eventi quotidiani e sta a noi imparare a riconoscerLo. Grazie alla sua Parola che stiamo per ascoltare. È un atto di fiducia ogni volta che ci mettiamo di fronte ad un testo della Scrittura. Credere che ci parli, che illumini la vita, che orienti il cammino.

Testo e contesto

Il brano fa parte del grande discorso di Matteo sulla cose ultime. Cioè quelle che accadono alla fine. La vita è andare incontro al Signore. Se questa è la meta occorre tenerne conto per sapere come arrivarci. Quando si parla del futuro di questo si parla. Più che parlare della fine si parla del fine della vita. Certo non è automatico aderire a questa prospettiva di fede. Ma il contrario è ammettere che semplicemente la vita ha una fine. Per questo il Maestro parla apertamente, volendo intendere non la fine di tutto, ma un nuovo inizio. Il linguaggio è duro e senza fronzoli, ma fa parte dell’armamentario ideologico di tipo apocalittico, che dobbiamo decifrare senza fretta. Aiuta l’uso delle metafore: quella del fico, quella di Noè e quella del ladro di notte. Possiamo scomporre il testo a partire da queste tre immagini.
«Imparate la lezione che viene dal fico. Dai suoi rami che si fanno teneri e dalle foglie che spuntano voi riconoscete che l’estate è vicina». A differenza del mandorlo che fiorisce prestissimo, il fico mette i bocci abbastanza tardi, annunciando così l’imminente stagione estiva. Ora lo stesso rapporto viene istituito tra l’esperienza dolorosa della grande crisi e la venuta finale del Signore. Questa non potrà non avvenire che a breve. Dunque, l’avvenimento del futuro non è affidato al caso incerto. Non si conosce quando, ma a breve ci sarà la liberazione.

La seconda immagine fa riferimento ad una delle grandi narrazioni bibliche. La storia di Noè con il suo pittoresco salvataggio di tutti gli animali e della sua famiglia. La rievocazione dell’antico diluvio porta con sé un qualcosa di minaccioso, ma Gesù vuole soltanto rimarcare che la sua venuta è altrettanto imprevedibile. Ciò comporta che si stia in allerta come Noè che costruisce l’arca, mentre gli altri fanno finta di niente.

L’ultima immagine è quella del ladro che scassina la casa di notte. Anche qui siamo di fronte ad una rievocazione sinistra e di sicuro impatto. Ma il senso è quello di ribadire che l’incertezza del pericolo deve suggerire di montare costantemente la guardia. In altre parole, la comunità cristiana di Matteo non deve distrarsi rispetto al suo compito e deve mantenere uno sguardo attento per non intorpidirsi nella routine e nella semplice gestione delle cose presenti.

Il linguaggio è esigente, ma il contenuto è liberante. Gesù vuole convincere i suoi che il suo Regno sta per accadere, anzi è già presente. E lo dice con forza quando afferma: «Ve l’assicuro, questa generazione non passerà prima che tutto questo sia avvenuto». Sono parole che esprimono un’autorevolezza che non lascia dubbi circa l’esito, ma sono contraddette dalla realtà. Al tempo in cui furono pronunciate non si sono realizzate. E allora come intenderle se non si vuole ammettere un errore da parte di Gesù, imitato dalla primitiva comunità? Per venir fuori da questa spinosa questione c’è solo una possibilità. Intendere «questa generazione non passerà» come il compito affidato a ogni uomo di sperimentare Dio nel presente e non chissà quando. Cioè, cogliere la sua presenza nel momento che si sta vivendo senza rimandi in avanti.

La vigilanza è un atteggiamento che non sogna ad occhi chiusi il futuro e se ne sta con le braccia conserte in un’attesa fatalistica, ma è aprire gli occhi sul quotidiano e trasformarlo dal di dentro, a partire dal concreto. Sta in questa presa di distanza dal tempo paradossalmente l’invito del Maestro. «Resistere all’aria del tempo» (Camus) è cogliere che camminiamo non verso la fine, ma verso un fine che è l’incontro con Gesù. Di qui l’impegno a non addormentarsi supini rispetto a quello che accade sulle nostre teste, ma aprire gli occhi e le orecchie per capire che cosa fare. Quando l’uomo perde il senso del cammino che conduce al fine, si ottunde e non comprende. Come suggerisce lo splendido salmo 48: «l’uomo nella prosperità non comprende. È come gli animali che periscono».
Questo è il punto. L’avvertimento della crisi è solo un modo per dire: riprendetevi in mano la vita, assumete le vostre responsabilità, giocatevi nelle scelte presenti. Così Dio si fa strada. Il contrario è vivere alla giornata, lasciarsi sopraffare dagli avvenimenti lieti o tristi, senza mai andare al di là dei bisogni immediati e degli impulsi di base.

Meditatio

Tra gli impazienti e i rassegnati, Gesù fa, dunque, emergere l’atteggiamento giusto che è quello responsabile della vigilanza. Che vuol dire stare accorti, essere svegli, avere gli occhi aperti. Volendo tradurre concretamente nella vita possiamo trarre qualche indicazione proprio a partire dalle tre immagini usate dal Maestro.

Il fico, ovvero Dio è vicino più di quello che pensiamo

Come si sa il fico è un frutto dolcissimo, ma l’immagine usata fa riferimento al fatto che la distanza tra il frutto e l’estate è rapidissima. Ciò che conta è accorgersi che la vita è essa stessa breve, cioè arriva velocemente. Quando si è più giovani sembra non passi mai. Ma poi la corsa subisce un’accelerazione e non ci si accorge del tempo che rimane. L’importante è saper trovare già nel tempo che ci è donato l’occasione per incontrare Dio. Soprattutto non bisogna farsi impressionare dalle difficoltà come se Dio lo si trovi soltanto nei momenti magici. Anche il dolore, la sofferenza e la delusione non sono macerie soltanto, ma possono diventare materiale per ricostruire se stessi. Perché Dio si trova dove meno te l’aspetti e spesso proprio là dove mai avresti pensato. Il dolore è la porta d’ingresso ad una nuova percezione dell’esistenza. Se ci apre verso l’esterno. Così come il piacere rischia di essere ottundente se si fissa in modo monotematico su una cosa o su una persona e ci fa rinchiudere in noi stessi.

Noè, vive come gli altri ma a differenza degli altri

Mangiare, bere, sposarsi non è detto in modo dispregiativo. La vita è fatta di queste cose e perpetua se stessa attraverso la famiglia e comunque non senza badare al proprio sostentamento. Non che Noè pensi solo a costruire l’arca. Verosimilmente mangia e beve, mette al mondo dei figli, ma nel frattempo costruisce l’arca, cioè si prepara ad affrontare l’inedito. Prevenzione è una brutta parola, ma è vero che è meglio prevenire che piangere. Non vale solo per i capelli. Qui si coglie un’altra maniera di essere vigilanti. Previene chi si prepara alla vita con un tirocinio rigoroso. Per intenderci: se non vogliamo che i ponti crollino occorrono ingegneri seri. Se vogliamo essere curati adeguatamente bisogna investire su giovani che studino e si impegnino. Questo lavoro nascosto della preparazione oggi è sottovalutato. La sensazione è che ci si improvvisi ma in realtà dallo sportivo al musicista solo un lungo apprendistato garantisce dei risultati. Prepara l’arca chi si adopera per una formazione seria che non lascia nulla di intentato, che sa portare a termine i percorsi di studio. Sto preparando l’arca della mia vita oppure vado avanti a vista? Senza motivazioni che non siano quelle di chi si ingegna a ingannare il tempo?

Il ladro, cioè l’imprevedibilità che esige compiutezza

È l’immagine più inquietante. Ma guai ad identificare il ladro con Dio. Non è Lui che ci deruba di quello che ci ha donato. Qui l’accento è posto sul fatto che ciascuno deve metterci del suo e che si è derubati solo di ciò che non si possiede veramente. Ad esempio, la cultura è un patrimonio che non invecchia e che fa tutt’uno con la vita. Ma anche avere un mondo interiore significa reagire quando tutto crolla intorno a noi. Più profondamente questa immagine dice che l’incontro che svela la vita è imprevedibile. Nessuno lo conosce. Ma ciò sta a dire che ogni momento è quello buono. In ogni momento perciò bisogna essere pronti. Allora comprendiamo quella differenza tra chi viene preso e chi viene lasciato. Non si equivochi: non si dice chi vive e chi muore. Ma chi viene colto nella sua vita come un essere compiuto e chi invece rivelandosi una persona irrisolta. «Di due uomini che saranno allora nel campo, uno sarà preso e l’altro lasciato. Di due donne che macineranno il grano, uno sarà presa e l’altra lasciata». Uno si salverà e l’altro si perderà. Semplicemente si incontrano persone compiute e gente irrisolta.

Stare pronti è l’ideale di chi in qualsiasi momento può dire di aver vissuto pienamente. La pienezza è ciò che garantisce la prontezza. Non ci è detto quando e come vivremo. Ma l’ideale sarebbe di vivere tutto con l’intensità di chi sa che ogni attimo è irripetibile. E per conservare questa tensione non smette di gridare. «Maranà tha! Vieni Signore Gesù!».

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