Lectio alla veglia di preghiera con i giovani (Domenica delle Palme)

Giornata diocesana della gioventù (Mt 25, 31-40)
19-03-2016

«Separerà gli uni dagli altri come il pastore separa le pecore dalle capre». La visione profetica che Matteo solennizza con l’intronizzazione del giudice universale, che è Gesù, si fonda su una separazione. Pur in un linguaggio arcaico non si fatica a comprenderne il senso. Infatti le pecore non sono le capre. La pecora ha cinquantaquattro cromosomi, la capra sessanta. La coda della pecora è all’ingiù, quella della capra all’insù (a meno che non sia spaventata, malata, o in difficoltà). Il belato della pecore è bee, quello della capra è mee. La pecora è un pascolatore, la capra è invece un brucatore. La pecora dorme anche all’aperto, al freddo, mentre la capra deve ricoverarsi in qualche grotta durante la notte.

Il cuore della profezia, che intende essere il giudizio ultimo, escatologico, si fonda su una separazione, che porta alla luce una differenza che in realtà riflette il modo di vivere sulla terra. Ma quel che più conta, il giudizio si fonda sulla prassi e non su una intenzione. Si tratta di verificare chi ha aiutato e si è interessato ai poveri e chi no. Non si farà un processo alle intenzioni ma solo ai fatti. Non solo: il Maestro lascia intendere che ritiene ascritto a sé quel che si fa per i poveri, considerato il legame che egli ha stabilito con i rifiuti della società.

Questo brano ci suggerisce almeno tre cose.

La prima: ciò che oggi facciamo non è senza conseguenze per il futuro definitivo. Nell’attimo breve e fuggevole si gioca il nostro destino ultimo. Come a dire che niente può essere banale o superficiale, ma traccia un solco profondo. Tutto si gioca su quei sei verbi: avevo fame, avevo sete, ero malato, ero nudo, ero forestiero, ero carcerato.

La seconda: la prassi e non le idee decide chi siamo. È un invito a uscire dal semplice pensare ed entrare dentro la concretezza delle scelte. È una bontà senza ideologia, ma concreta e prossima. Non l’appartenenza religiosa, ma la pratica quotidiana rivela chi siamo.

La terza: Gesù si identifica con i poveri, non come fosse una classe sociale privilegiata, ma semplicemente perché lui è così. Scartare i poveri equivale ad eliminare lui.

Pecora o capra? Posta così sembra un’alternativa impraticabile. Ci sentiamo distanti da entrambe le posizioni evocate. Ma proprio qui sta la provocazione: non c’è la possibilità di una terza via. O si è l’una oppure l’altra. Anche perché la pecora non diventa mai capra e viceversa. La salvezza come la condanna non nasce da Dio, ma prende atto di ciò da cui ci siamo allontanati. E sigilla per sempre la nostra scelta.

Al fondo è l’indifferenza quella che mutila la nostra umanità e la condanna.

È questo il demone da cui è infetta la nostra società.

Anni fa il filosofo Umberto Galimberti tentò di dare un nome a questa forma di anestesia emotiva e la chiamò l’«ospite inquietante». Dopo che Dio è morto e i miti della modernità (scienza, utopia, rivoluzione e tecnologia) hanno mancato la promessa, si moltiplicano la malattia, l’ intolleranze, l’egoismo fine a se stesso, la violenza più gratuita. Il futuro è visto solo come una minaccia e non più come una promessa. Questa aridità nasce dal considerare i sentimenti come debolezza, dominati dal mito superstite dell’apparire, che stressa in nome della prestazione. Di qui il dilagare delle droghe, che alla fine sono una sorta di piacere dell’anestesia. Per non parlare dei casi estremi. Bisogna tornare ad educare l’anima, perché il sentimento è l’organo attraverso il quale si sente, prima ancora di sapere cos’è bene cos’è male. Qui sta il punto. E la prassi di andare incontro agli altri è la strada per risvegliare i sensi e per aiutarci a ritrovare la strada di una relazione con la realtà che altrimenti è destinata ad essere cancellata. Gli altri sono “il bacio del principe azzurro” che risveglia la bella addormentata che se ne sta ignara della realtà.

L’indifferenza, ecco il nostro peccato. Come sostiene un pensatore di orgine polacca che lascia presagire dietro le sue parole l’Olocausto, ma si applica anche a tante forme di indifferenza oggi diffuse nei riguardi degli poveri, degli ammalati, dei disabili, dei nuovi schiavi: «C’è un male che molti di noi tollerano e di cui sono persino colpevoli: l’indifferenza al male. Noi restiamo neutrali, imparziali e non siamo facilmente scossi dal male inferto ad altre persone. L’indifferenza al male è più insidiosa del male stesso; è più universale, più contagiosa e più pericolosa. Si tratta di una giustificazione silenziosa che rende possibile un male che erompe come un’eccezione e la fa diventare la regola, rendendolo così accetto… » (Abraham Joshua Hescel).

Ciò nonostante i giovani sanno come reagire. Attingendo alla loro energia di sempre. Come si ricava da quel «giovane favoloso» che fu Giacomo Lepoardi: «Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo, non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere, non è tolto ne’ possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una città, e a sdegnare la nullità e la monotonia» (Zibaldone, 1° maggio 1820).