«Le tre parabole della misericordia» (1)

Lectio divina del vescovo con i giovani (Lc 15, 1-7)
27-11-2015

Ho pensato che non ci fosse strada migliore per entrare dentro l’atmosfera del Giubileo della misericordia che fermarci con calma su tre parabole che hanno sempre al loro culmine la gioia e la festa. L’articolazione del capitolo 15 di Luca, in effetti, è costruita a regola d’arte. Vi è prima di tutto una sorta di piccola introduzione che fa da cornice ai tre racconti e precisa l’obiettivo del Maestro. Egli vuol parlare ai suoi irriducibili antagonisti, scribi e farisei, ma anche a chi rischia di trasformarsi in un benpensante, magari devoto e praticante. Seguono due parabole gemelle. La prima, quella appena ascoltata della pecora perduta, e poi quella della donna che smarrisce la monetina preziosa, su cui ci fermeremo la prossima volta. Infine, si arriva al capolavoro, che è rappresentato dalla parabola del padre e dei due figli, che assaporeremo l’ultima sera.

Lo scopo delle tre parabole è unico: si tratta di un invito rivolto ai ‘giusti’ giudei a scoprire il volto di Dio, che non elimina la giustizia, ma la supera; non si limita a giudicare il peccato, ma cerca il peccatore; anzi lo accoglie, e proprio questo lo converte. Può sembrare strano, ma l’obiettivo resta valido anche oggi in una società che è intollerante nel profondo. Non mi riferisco soltanto alla violenza nelle sue varie forme, ma anche a quell’incapacità diffusa di dialogare e di lavorare insieme, che sono il riflesso dell’incapacità di accogliere chi non la pensa come noi, chi sbaglia, chi insomma si perde. La cultura dello scarto è in fondo la facilità con cui abbandoniamo gli altri al proprio destino, incuranti del loro fallimento, privi di ogni tenerezza e misericordia.

Leggiamo il testo dividendolo in tre momenti.

«Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”». Colpisce che quelli più vicini al Maestro non sono i giusti, ma i peccatori. Non soltanto Gesù ha simpatia per i peccatori, ma anche costoro hanno simpatia per lui. Si instaura un duplice movimento: Gesù cerca i peccatori e i peccatori cercano lui. E non si tratta di casi isolati, ma si fa riferimento a tutti, dunque a un numero vasto. Quel che più colpisce, è che Gesù non si limita a farsi accostare, ma prende l’iniziativa e va a mangiare con loro. Gesù, insomma, offre al peccatore tutte le possibilità ed anzi sembra ostinato a stargli dietro ancora di più. Questa sua inspiegabile attenzione suscita il mormorio di quelli che vedono nell’atteggiamento aperto uno scandalo. I farisei mormorano.

Cosa ci fa parlare male di chi fa il bene? L’invidia? Il risentimento (come nella favola della volpe e dell’uva?).

Anche oggi la grandezza della vita è spesso contrastata dalla miseria di ciò che è arido. Le parole si possono confutare. Neutralizzare la testimonianza è più difficile. Per questo non resta che mormorare. Dio, per fortuna, non è come noi. Non è come ce lo immaginiamo. È come Gesù ce lo svela. La controfigura del Maestro è lo scriba interprete della legge e il fariseo che la mette rigorosamente in pratica. Costoro sono tipi seri e non vanno banalizzati. Il loro limite è che partono da una conoscenza del bene e del male, mentre Gesù parte sempre da Dio e dall’uomo. Il dialogo che avviene perciò è tra sordi. Non giudicare per Gesù non è un atto benevolo di indulgenza verso chi ha mancato, ma la rinuncia a possedere una misura che non si possiede, la dottrina del bene e del male. Lui è venuto non per giudicare, ma per salvare. Solo se siamo uniti a Lui riusciremo a non essere pedanti, giudicanti, irritanti. Ma soprattutto solo così stretti a Gesù evitiamo di cadere nella trappola di un dio che è a nostra immagine e somiglianza, cioè geloso, nemico della nostra felicità, un ostacolo alla nostra libertà.

È così anche per noi? Come sentiamo Dio? Come lo percepiamo? Come un Dio vicino o lontano? Come uno che ci limita o che ci promuove?

La parabola si apre con una domanda paradossale: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?». Nessuno metterebbe a rischio le novantanove per una soltanto. Quanti di noi risponderebbero davvero come la domanda lascia intendere? Non diremmo piuttosto – fatto un rapido calcolo costi-benefici tutto basato sulla logica quantitativa – : «Io no di certo!»?. Ma forse qui c’è un altro aspetto di Dio che non immaginavamo: l’eccedenza. Anche una singola persona è sufficiente a mobilitarLo. Dio è più che un pastore che cerca il gregge. Lui si affatica anche per una sola pecora. E’ un Padre. Questa aderenza al concreto a noi spesso sfugge. Inseguiamo ideali astratti, propositi universalistici, ma poi perdiamo l’aggancio con il concreto. Ci si mette in cerca dell’unica pecora perduta solo quando si percepisce il dramma del perdersi. Perduto è sinonimo di smarrimento, di fallimento, di annichilimento. Dio non tollera questo per nessuna creatura ed è disposto a mettere a repentaglio i giusti, pur di ritrovare chi si è perso.

Ha ragione Christian Bobin: «Forse non abbiamo mai avuto altra scelta tra una parola folle e una parola vana». Che cos’è tanto e che cos’è poco? Come si misura il valore di qualcosa? Sappiamo ancora chiedercelo con libertà, fuori dal paradigma economico e dalla logica strumentale?

«Quando l’ha trovata, pieno di gioia, se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”». La gioia nasce dal ritrovare quel si è perduto. Non dalla sicurezza di non avere niente e nessuno da ritrovare. È un’emozione che si fa travolgente, al punto che non si ha più voglia di starsene da solo, ma si cerca di coinvolgere amici e vicini. Manca a noi credenti questo fremito di letizia. Una Chiesa veramente lieta è quella che non si attarda a definire le sconfitte patite, ma si getta al largo per intercettare quanti si sono allontanati. Un gruppo di giovani credenti sa essere attrattivo se non si chiude a distanza rispetto agli altri, ma sa mettersi sulla strada per condividere la gioia cristiana e insieme ritrovare il cammino interrotto. Il protagonismo di un giovane credente deve farsi strada nel quotidiano dove la sua fede ispira azioni controcorrente e offre percorsi di fiducia e di speranza.

Mi è capitato mai di sperimentare questa scossa di vita e di provare una gioia simile?

La chiusa del vangelo sembra quasi una presa in giro. «Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione». La gioia e la festa di Dio è tutta concentrata sul ritrovamento di chi si era perduto. E non è senza ironia quel riferimento ai giusti che non hanno bisogno di conversione. In realtà, sono proprio i giusti che hanno bisogno di cambiare sguardo ed atteggiamento mentale. Chi è infatti il giusto? Solo chi si conforma, spesso senza adesione interiore, alle parole della legge. Ma poi vive anaffettivamente la condizione dell’altro. Se c’è uno che ha bisogno di cambiare è proprio chi, chiuso nella propria torre di autosufficienza, non si accorge che in realtà non si salva nessuno da solo.

Aveva ragione un autore vissuto tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600, John Donne, a scrivere poeticamente: «Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata via dall’onda del Mare, la Terra ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica o la tua stessa Casa. Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo all’Umanità».