L’architettura della famiglia e le sue ricadute sociali

Discorso al Convegno internazionale «La famiglia: nucleo da preservare». Rieti, Salone papale del palazzo vescovile
25-09-2015

Onorevoli Ambasciatori, Autorità presenti, cari Amici,

sono lieto di accogliervi in questo storico Salone papale, che ha visto la presenza nel Medio Evo di diversi pontefici, in particolare in occasione dei ripetuti contatti di San Francesco d’Assisi in vista della sua Regola e della canonizzazione di San Domenico. Entro subito nel tema che motiva questo nostro incontro nel contesto di un vostro tour nella Valle Santa reatina. Vogliamo, infatti, riflettere sulla famiglia, alla vigilia del Sinodo.

La famiglia non è un’invenzione stagionale, perché serba in seno l’humus, cioè la terra dove si imparano le grandi differenze. Infatti «la famiglia – come scrive p. Spadaro – non è armoniosa. È sana proprio perché contiene così tante discrepanze e diversità». Tra queste due balzano soprattutto in evidenza: la differenza sessuale (padre e madre) e quella generazionale (genitori e figli). Per questo la famiglia risulta irrinunciabile, a dispetto delle sue molteplici trasformazioni storiche (patriarcale ieri e nucleare oggi). Se se ne parla – e la Chiesa tra domani e dopodomani a Filadelfia ne farà oggetto di un Incontro mondiale alla presenza del papa – è per la semplice ragione che ogni epoca è chiamata a ripensare la famiglia, preservando l’humus originario e cercando di interagire con le trasformazioni della società. Al fine di garantire le condizioni di crescita della persona, chiamata sempre a realizzarsi dentro uno spazio vitale più ampio che faccia uscire dall’isolamento. Quel che più conta è evitare toni melensi o astratti, perché la famiglia è un luogo reale che non si presta né a romanticismi né a ideologie, ma va vissuta nella sua esperienza concreta e paradossale.

1. La famiglia è l’ostacolo più forte contro l’individualismo

La famiglia è sotto attacco non da oggi. Lo scriveva già Renato Guardini nella sua Etica, tra i primi anni ’50 e i primi anni ’60: «Secondo le più diverse prospettive v’è oggi una tendenza a mettere in discussione la famiglia, anzi a dissolverla», perché di fatto essa «costituisce l’ostacolo naturale più forte contro l’assorbimento dell’individuo».

Oggi forse avvertiamo più chiaramente la lenta erosione della famiglia in un sintomo preoccupante: la stanchezza diffusa. Le generazioni passate non conoscevano l’uomo stanco, minacciato dallo stress e nell’impossibilità di trovare sé stesso. Oggi viviamo in una società del disagio. Siamo stati stregati dall’idea che tutto è possibile e a portata di mano: yes, you can! Ma alla prova dei fatti, lo scarto tra l’ideale sognato e la realtà di sé, sviluppa frequentemente disincanto, noia, ansia da prestazione. «Come sarei felice se non dovessi essere più felice» si potrebbe dire parafrasando una battuta di Woody Allen. Il lato oscuro di questa felicità che si pretende garantita in automatico è stata, senza accorgercene, proprio l’enfasi sull’autonomia. L’uomo di cento anni fa diventava autonomo col tempo, attraverso un tragitto che prevedeva tappe e riti da passare per emanciparsi, non senza conoscere nevrosi di vario genere. L’uomo di oggi non conosce la nevrosi, ma la depressione. Appare, ancora lattante, dotato di ogni diritto, interessato al pari degli adulti solo a ciò che produce benessere, ma col tempo dovrà rendersi conto che certe conquiste della libertà hanno un costo. In ogni caso, che la vita è un cammino, con le sue lentezze, le sue devianze e i suoi passi perduti. Ma, soprattutto, che si va avanti solo se si entra in relazione con altro da sé, cioè se si fa esperienza di qualcun altro rispetto al proprio io.

Il testo biblico delle origini della creazione (Gen 1-2) è illuminante al riguardo. Dio prende una costola dell’uomo e richiude la carne… Entrare in relazione presuppone così una perdita, qualcosa in meno. Solo se si intacca l’integrità, se si rompe l’uovo, si spezza il narcisismo originario. Questa esperienza di rottura, che non si produce senza uno choc, si chiama “alterità”. Ben lo sa il bambino che è preso da vertigini quando scopre che la mamma non è lui!

Il tempo dell’individualismo, in cui siamo nati e cresciuti, ha lentamente eroso il senso dell’altro, anzi ha instillato l’idea che si diventa individuo nella misura in cui ci si allontana dal collettivo e ci si divincola da qualsiasi legame. Un’entità autonoma, autosufficiente, indipendente: questo sarebbe l’ideale, il sogno da inseguire. Ma la realtà non è così. Solo grazie all’alterità si costruisce l’identità di una persona e questo lavoro che si avvia dai primissimi anni è ciò che consente di ospitare in se stessi un luogo per l’altro.

Si capisce che il virus dell’individualismo infetta tutto. Sentiamo il bisogno degli altri per vincere la solitudine, ma a patto che stiano al loro posto, che non impongano vincoli, non creino restrizioni di sorta. Andiamo così verso «relazioni tascabili», dove gli scambi sono segnati dall’intensità, dalla spontaneità e dalla brevità, mentre va evitato il rischio della profondità e della durata. Sin da piccoli ci si convince che occorre passare il meno possibile attraverso l’altro e, al contrario, imparare a farne a meno, per diventare sé stesso. Self made man, artefici di se stesso! Non sorprende poi che allevati a questa presunta autosufficienza si rischi nel concreto o la dipendenza affettiva o la fobia sociale, che sono le due facce della stessa medaglia. E cioè la mancanza dell’altro che evita il confronto e lo scontro per abbandonarsi all’isolamento e alla tristezza. Per altro la tecnologia digitale rischia di essere, suo malgrado, una potente alleata di questi rapporti protetti, a distanza. Il cellulare è solo un piccolo oggetto tascabile, ma anche una potente apertura sul mondo. Il rischio è che si privilegiano le connessioni, ma si evitano le relazioni.

2. L’individualismo all’origine della fatica di vivere

La madre di tutte le nostre depressioni è voler fare tutto da soli, staccati dall’altro e possibilmente a sua insaputa. Le conseguenze sono inevitabili.

Si rimane con sé stessi. E impercettibilmente si allenta ogni differenza, perché esiste solo l’io. Un narciso che si specchia nell’immagine di sé stesso. Viene così meno anche la differenza sessuale e pure quella generazionale.

La differenza tra maschio e femmina finisce col diventare irrilevante. Ci vorrebbe ben altro tempo per descrivere la parabola dei rapporti tra i sessi, che ha conosciuto negli ultimi decenni delle significative trasformazioni. Con il XX secolo la gerarchizzazione dei sessi, tipica della cultura patriarcale, a vantaggio di quello maschile è entrata in crisi. Ma questa positiva presa di coscienza ha prodotto il passaggio dal modello della differenza ineguale a quello della somiglianza ugualitaria. Qui si inserisce la questione del gender: nella forma attuale del dibattito, nella sua fase più recente, si arriva a disconoscere il significato del dato naturale e biologico, lasciato alla libera e mutevole interpretazione. Il lavoro psicoanalitico rivela però che il vacillare delle identità sessuali non è privo di effetti. «Uomini e donne si scoprono incerti nell’assegnazione del loro ruolo rispettivo, sfrattati dalla sicurezza che ne derivava, colpiti entrambi da una sorta di indecisione, di annebbiamento, di illegittimità di fondo». Fino alla sconsolata affermazione di una donna, in qualche modo emblematica di tante vicende contemporanee: «Bisognava rompere lo schema di domesticità ancestrale. Oggi io sono più libera di altre donne, ma anche più sola» (ibidem, 45).

L’aver ridotto la differenza a una questione puramente anatomica, anzi ad una variabile sciolta da ogni prospettiva biologica, significa aver invertito le parti senza uscire da una mortificante distorsione. Prima si riconosceva solo il dato naturale dimenticando quello culturale, oggi si sceglie quello culturale cancellando quello naturale. Ma ci sarà la possibilità di non dissociare la realtà che è una e ricca nella sua complessità?

L’altra differenza che è stata attenuata fino quasi ad essere cancellata è quella tra le generazioni che ha decretato, tra l’altro, la fine dell’autorità.

Già nel 1959 la Arendt scriveva: «Che gli adulti abbiano voluto disfarsi dell’autorità significa solo questo: essi rifiutano di assumersi la responsabilità del mondo in cui hanno introdotto i loro figli (…). Quasi che ogni giorno i genitori dicessero: “In questo mondo anche per noi è un mistero come ci debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, e in ogni modo, non

siete autorizzati a chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo la mani di voi” » . Si è prodotto così una sorta di disimpegno educativo, i cui effetti non hanno tardato a manifestarsi sulle giovani generazioni: iperattività, disturbi fobici, aumento della violenza, delinquenza giovanile, e in modo più ampio predisposizione alla depressione, alla dipendenza di vario genere. E’ sintomatico che proprio i figli cresciuti in nome dell’autonomia siano quelli più segnati da forme di dipendenza patologica. Il bambino non è più orientato verso l’adulto per imparare, ma si interpreta come un pari grado, che contratta i suoi spazi, eludendo la relazione asimmetrica tra genitori e figli e spesso imponendo un sottile ricatto affettivo. Ieri la parola d’ordine era: «Obbedisci, capirai più tardi!». Oggi è «Adesso ti spiego. Troviamo il modo di metterci d’accordo…». Il troppo permissivismo sembra peraltro la nemesi dell’autoritarismo di ieri, ma «educare un figlio significa aiutarlo, grazie al gioco alternato di autorizzazione e divieto, a trovare il luogo del suo desiderio e ad ancorarsi ad esso».

3. Ricostruire i fili della famiglia

Ci si chiede a questo punto da dove cominciare per ritessere il familiare, reagendo al declino individualista che mostra le sue faglie e chiede di essere oltrepassato al più presto. Se la famiglia vuol preservare la differenza sessuale e quella generazionale – e solo la differenza genera – non può fare a meno di cimentarsi in alcune esperienze che la riattivano. Ne richiamo velocemente, e a mò di apertura della discussione, tre.

La prima è vivere la famiglia nel concreto. Non si difende la famiglia a forza di slogan o di campagne. La realtà della famiglia è sempre imperfetta ed anzi proprio questa sua inadeguatezza spinge ciascuno a dare il meglio di sé. Non esiste una famiglia ideale. Come sostiene la prof. ssa Chiara Giaccardi: «La famiglia è carne. E dunque si può ferire (e più si sta vicini, più è facile ferirsi) e anche infettare. Ma le ferite curate possono guarire. E le cicatrici, che non si cancellano, diventano memoriale di perdono, contro l’oblio e la noncuranza che ci rendono disumani» .

La seconda è vivere la famiglia non come un nido, ma come un nodo. La famiglia non è una tana in cui rifugiarsi e magari dare origine a quel «familismo amorale», di cui noi italiani non possiamo certo andare troppo fieri. Senza un’apertura oltre sé stessa la famiglia rischia di implodere e di snaturarsi. Praticare l’ospitalità è una maniera possibile per superare quell’autoreferenzialità che spegne la generosità e la fecondità della famiglia. Ciò significa che si dà una stretta correlazione tra famiglia e società in tutte e due le direzioni. L’una sta in piedi se l’altra vive. L’una crolla se l’altra deperisce.

La terza è vivere la famiglia come una comunità narrativa. In un mondo che vive schiacciato solo sul presente e che misura la sua libertà solo in termini di efficienza c’è bisogno di passare dal contare al rac-contare. Che aiuta a rideclinare il presente col passato e col futuro. Senza una architettura del tempo le vite crollano. Si vive per davvero solo quando si trasmette qualcosa. In pratica, solo se si riesce a passare il testimone a qualcun altro. Raccontare è rigenerare il legame tra i tempi e le persone e immettervi una speranza che sia capace di risvegliare dall’apatia in cui giovani e gli adulti sembrano essere precipitati.

La famiglia è una grande sfida. La sola in grado di risvegliarci. Come ha detto di recente papa Francesco: «Lo spirito porterà lieto scompiglio nelle famiglie cristiane e la città dell’uomo uscirà dalla sua depressione» .