La chiesa italiana e le sfide pastorali di questo tempo

“Camminare insieme per costruire il futuro”. Con le altre Chiese italiane ripartiamo anche noi (Arezzo, Convegno pastorale diocesano 2021)
13-09-2021

Confesso che dopo aver letto in obliquo il Liber Synodalis (2016-2019) e aver compreso il cammino compiuto, mi è parso non solo audace, ma forse inutile venire fin qui. Per voi, ovviamente. Perché del “camminare insieme per costruire il futuro”, avete già fatto esperienza in tanti. Almeno quelli – e sono più di cinquecento – i cui nomi sono scritti nel Liber Synodalis. Che cosa allora resta da fare? Mons. Fontana lo scrive nella prefazione: “Occorre ora passare dal Sinodo di carta al Sinodo di carne, serve l’opera di tutti, di Dio innanzitutto, ma anche di tutti noi, perché il sogno possa diventare realtà”. Poi aggiunge che intende ispirarsi a papa Francesco, il quale “in tempi burrascosi, dice di preferire al mito di Ulisse, che, per sfuggire alle sirene, legò sé stesso e i suoi agli alberi della nave, tappando le orecchie di cera per non ascoltare, la scelta di Orfeo che per contrastare il canto delle sirene, fece qualcos’altro: intonò una melodia più bella, che incantò le sirene (Christus vivit, 223).

Vorrei farmi provocare con voi da questa opposizione Ulisse/Orfeo per inquadrare la sfida pastorale del nostro tempo che ha a che fare con Dio, la cui presenza tende ad essere censurata dalla nostra cultura. Per arrivare ad individuare una melodia tale da incantare le sirene del mondo.  Dunque qualcosa di positivo e non semplicemente di negativo che risvegli la nostalgia di Dio, con uno stile cristiano originale. Tutto questo per arrivare finalmente ad un diverso rapporto tra fede e cultura, impregnato più radicalmente dal principio della relazione.

1. La vera sfida è Dio, cioè dell’evangelizzazione

  • Siamo ormai una ‘minoranza’, dentro un contesto plurale. Chi non accetta questa sfida tende a rifugiarsi nel passato, nella ‘retrotopia’ (Z. Bauman), che è una forma diversa dall’utopia, ma non meno inutile.
  • A prevalere su tutto oggi è l’indifferenza verso Dio. Non la contestazione, il dubbio, il problema. Dio non interessa punto. Anche perché la parola “Dio” è diventata equivoca e nella percezione dei Millennials rischia di essere abbinata a violenza.
  • Stessa indifferenza verso la Chiesa, quando non addirittura ostilità. Anche a motivo di scandali che ne hanno minato la credibilità.

Tra Dio e la Chiesa c’è fortunatamente una realtà: Gesù Cristo, che non cessa di attrarre. Per Gesù non c’è ostilità, ma rispetto. Le sue parole sono intriganti e hanno un significato profondo. Nessun può andare a Dio senza passare per Lui. Del resto il prologo di Giovanni è chiaro: “Dio nessuno l’ha mai visto”. Solo Gesù di Nazareth è in grado di rivelarceLo. Dobbiamo rimettere al centro la vicenda di Gesù Cristo. È questo l’unico modo per aggirare l’indifferenza che ci circonda. In una parola: tornare ad evangelizzare.

Resta insuperato, per brevità ed intensità, quel che il card. Bergoglio ebbe a dire durante la penultima delle Congregazioni generali prima del Conclave. Dopo queste parole si rafforzò l’intenzione di eleggerlo papa. Siamo al 9 marzo, cioè il sabato prima dell’inizio del Conclave, fissato per il 12 marzo. Il futuro papa parlò a braccio, salvo poi – su richiesta del card. Ortega – mettere per iscritto quel che aveva detto.

2. Evangelizzare le periferie

Si è fatto riferimento all’evangelizzazione. E’ la ragion d’essere della Chiesa. “La dolce e confortante gioia di evangelizzare” (Paolo VI). E’ lo stesso Gesù Cristo che, da dentro, ci spinge.

  1. Evangelizzare implica zelo apostolico. Evangelizzare presuppone nella Chiesa la “parresìa” di uscire da sé stessa. La Chiesa è chiamata a uscire da sé stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del colore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria.
  2. Quando la Chiesa non esce da sé stessa per evangelizzare diviene autoreferenziale e allora si ammala (si pensi alla donna curva su sé stessa del Vangelo). I mali che, nel trascorrere del tempo, affliggono le istituzioni ecclesiastiche hanno una radice nell’autoreferenzialità, in una sorta di narcisismo teologico. Nell’Apocalisse, Gesù dice che Lui sta sulla soglia e chiama. Evidentemente il testo si riferisce al fatto che Lui sta fuori dalla porta e bussa per entrare… Però a volte penso che Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Gesù Cristo dentro di sé e non lo lascia uscire.
  3. La Chiesa, quando è autoreferenziale, senza rendersene conto, crede di avere luce propria; smette di essere il “mysterium lunae” e dà luogo a quel male così grave che è la mondanità spirituale (secondo De Lubac, il male peggiore in cui può incorrere la Chiesa): quel vivere per darsi gloria gli uni con gli altri. Semplificando, ci sono due immagini di Chiesa: la Chiesa evangelizzatrice che esce da sé stessa; quella del “Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans” (la Chiesa che religiosamente ascolta e fedelmente proclama la Paola di Dio), o la Chiesa mondana che vive in sé, da sé, per sé. Questo deve illuminare i possibili cambiamenti e riforme da realizzare la salvezza delle anime.
  4. Pensando al prossimo Papa: un uomo che, attraverso la contemplazione di Gesù Cristo e l’adorazione di Gesù Cristo, aiuti la Chiesa uscire da sé stessa verso le periferie esistenziali, che la aiuti a essere la madre feconda che vive “della dolce e confortante gioia dell’evangelizzare”.

Si accusa talora Francesco di orizzontalismo, di dimenticare i ‘novissimi’, di ridurre la chiesa ad una ONG. Quanto è falso tutto questo! In realtà, papa Francesco “si rifà al vangelo, letto in modo francescano” (A. Riccardi, La chiesa brucia? Crisi e futuro del cristianesimo, 228, Bari-Roma, 2021). Questo pontificato, sulla strada del futuro, lascia in eredità il “povero” come luogo teologico ed esistenziale per il cristiano e la comunità. Non a caso per i Padri ‘vicarius Christi’ era il povero! Scrive P. Tillich: “Ascoltate quest’unico, importante ammonimento! Non considerate mai empia la sfera profana semplicemente perché non parla di Dio. Definire empia una sfera della creazione e della provvidenza divina, questo sì che è empio: nega il potere di Dio sul mondo. Ma ciò costringerebbe Dio a confinare se stesso alla religione e alla Chiesa” ( P. Tillich, L’irrilevanza e la rilevanza, 87-88). Insomma, è solo prendendo sul serio questo presente, questo “oggi”, che la Chiesa può pensare il suo futuro come rigenerazione. La chiesa è prima di tutto l’obbedienza alla storia. Infatti la chiesa non abita “nella” storia, la storia non è un contenitore, un involucro: la chiesa abita “la” storia. È paradossale, ma la chiesa deve alla storia la sua stessa esistenza, fino al punto che è destinata a finire con la storia: è la storia che va verso il Regno. La chiesa, dunque, abita “la” storia più che “nella” storia. Perciò occorre calare l’annuncio dentro questo irripetibile momento che ci tocca in sorte.

La melodia da intonare, cioè dello stile cristiano

2.1.    Le sirene

Ci sono alcune “sirene” che sovvertono l’annuncio del Vangelo dentro un ‘cambiamento d’epoca’ di inusitate dimensioni. Possiamo coglierne almeno quattro: la sfida dell’inequità che produce la cultura dello scarto e l’idolatria del denaro; la sfida di una cultura consumista che ha relativizzato tutto: famiglia, chiesa, scuola; la sfida della comunicazione pervasiva e digitale; la sfida di una fede che deve incarnarsi in una nuova cultura.

La sirena sociale è tutt’altro che una questione collaterale. Descrive la situazione conflittuale che genera una condizione di violenza e di divisione che incide sul tessuto comunitario messo a dura prova. L’insistenza sui temi economici e sociali non è un cedimento alla dimensione orizzontale, ma l’avvertenza che certe condizioni strutturali incidono profondamente sulla tenuta della comunità.

La sirena consumista dice di una cultura che ha imposto nuovi standard di qualità dove ciò che decide è “ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale, provvisorio. Il reale cede il posto all’apparenza” (EG, 62) (cfr. A. Matteo, Pastorale 4.0. Eclissi dell’adulto e trasmissione della fede alle nuove generazioni, Milano, 2021).

La sirena della comunicazione è incalcolabile nei suoi effetti che hanno già prodotto il cambiamento del tempo e dello spazio, ma soprattutto uno schiacciamento sul presente che non concede nulla al passato e al futuro (J. M Twenge, Iperconnessi, 2017). Al punto che “i ragazzi oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti”(cfr. anche M. Benasayag, La tirannia dell’algoritmo, Milano, 2020)

Infine, la sirena di una fede che sembrava morta e ora sembra risorta nelle forme di un sacro aggressivo ed impersonale, poco incline alla comunità e più orientato ad una fruizione individualistica ed emotiva che getta i preti in una crisi di nervi (T. Frings, Così non posso più fare il parroco, Vi racconto perché, Milano 2018).

Se queste sono le sirene esistono collateralmente delle fragilità dell’uomo di fede, che sono riconducibili all’accidia, al pessimismo, alla mondanità, alla guerra intestina.

2.2.    I soggetti

L’a-patia/l’accidia ha preso le forme del conformismo sociale e dell’eversione verbale, della curiosità distratta – che impropriamente è fatta valere come divulgazione – anziché della conoscenza accurata delle cose. Quest’ultima – in qualunque modo la si rivolti – esige fatica. L’accidioso non sa faticare. Soprattutto non si sa dedicare. Nel nostro tempo vi sono uomini che non sanno coltivare a lungo neppure un amore. Dicono: che noia! Evagrio, monaco antico, queste cose le conosceva molto bene. “Non basta una sola femmina a soddisfare il voluttuoso e non è abbastanza una sola cella per l’acedioso”,. L’accidioso non sa portare a compimento l’opera. Tutt’al più è capace di divagazione. L’accidia è un vizio antiapostolico perché è come una paralisi che finisce per non accettare il ritmo della vita. E si manifesta in forme disparate: il prete fannullone, ma anche quello saltimbanco che nel suo andirivieni mostra l’incapacità di rimanere fondato in Dio e nella storia concreta con cui è affratellato. Certe volte si presenta nell’elaborazione di piani grandiosi senza alcuna attenzione alle mediazioni concrete che li dovranno realizzare; o, al contrario, si arena nelle piccolezze di ogni momento senza trascenderle nel piano di Dio. Quelli che sognano progetti irrealizzabili per non realizzare ciò che potrebbero fare normalmente. Quelli che non accettano l’evoluzione dei processi e vogliono la generazione spontanea. Quello che credono che sia stato già detto e che non bisogna procedere oltre. Quelli che hanno chiuso il loro cuore. Quelli che non sanno aspettare e per questo sono disgreganti, per la loro stessa chiusura alla speranza. L’accidia è disgregazione perché è la vita a riunire, e costoro non accettano la vita. E così prende forma la più grande minaccia che è “il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità” (J. Ratzinger).

Il pessimismo sterile è quel senso di sconfitta che ci trasforma in pessimisti scontenti che non sanno vedere altro che rovine e guai. Come già notava Giovanni XXIII “A noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo” (11 ottobre 1962 – Gaudet Mater Ecclesia).

La mondanità spirituale ha a che fare con lo gnosticismo e il pelagianesimo dall’altra. Lo gnosticismo è la pretesa di vedere la realtà senza toccarne la carne. Il pelagianesimo invece è il tentativo di ricondurre tutto alla nostra efficienza come se tutto dipendesse dalla semplice volontà umana.

Infine, la guerra tra di noi che assumono forme francamente inaccettabili: “odio, divisione, calunnia, diffamazione, vendetta, gelosia, desiderio di imporre le proprie idee a qualunque costo, fino a persecuzioni che sembrano una implacabile caccia alle streghe. Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti” (EG, 98).

Al fondo, ci sono almeno quattro soggetti che vanno rivitalizzati: i laici che sono il 98 % del popolo di Dio che rischiano però di essere un ‘gigante addormentato’; le donne che sono in fuga anche perché le loro domande sono inevase; i giovani che sono pochi, lenti e irrilevanti anche nella chiesa; le vocazioni che scarseggiano e sono diventate un miraggio che facilita forme spurie di cooptazione che creano più problemi di quelli che risolvono.

2.3.    Lo stile del cristianesimo: la nostalgia del mare

Non siamo più il centro geografico della società. Sono altri i riferimenti che strutturano la vita urbana o rurale. Eppure il cristianesimo ha evangelizzato prima le città che le campagne e lo stesso Paolo con la sua audacia che era intellettuale ma anche fisica ha visitato i centri economici più fiorenti e da lì a disseminato il Verbo. Senza mai perdersi d’animo, anzi trovando nel suo essere decentrato un punto di forza. Uscire da sé stessi è uscire anche dal recinto dell’orto dei propri convincimenti considerati inamovibili se questi rischiano di diventare un ostacolo, se chiudono l’orizzonte che è Dio.

Accanto all’atteggiamento decentrato si richiede una maggiore sinergia nel discernimento delle cose da fare. La comunione significa che non basta un leader che faccia da sé, ma ci vogliono tanti punti che si avvicinano per tessere la rete, che non camufferà mai le diversità pur all’interno di questa sostanziale unità.

E, infine, è importante un ritorno alla sobrietà. “Il risultato del lavoro pastorale non si appoggia sulla ricchezza delle risorse, ma sulla creatività dell’amore. Servono certamente la tenacia, la fatica, il lavoro, la programmazione, l’organizzazione, ma prima di tutto bisogna sapere che la forza della Chiesa non abita in sé stessa, bensì si nasconde nelle acque profonde di Dio, nelle quali è chiamata a gettare le reti. Non multa, sed multum!

Secondo un noto aforisma: “Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini solo per raccogliere il legno e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito (Antoine Marie Roger de Saint-Exupery)”. Non vi è dubbio che papa Francesco stia risvegliando il desiderio di Dio con gesti e parole che annullano la distanza e ristabiliscono un rapporto che si era interrotto. In fondo, guardando a lui ancor prima che a quello che dice, si può intuire la strada da percorrere per una evangelizzazione che marchi da subito la qualità della relazione. Nessun sapere infatti, passa fuori dalla relazione, in particolare quando è in gioco la fede . Proprio il Papa venuto dall’altra parte del mondo è oggi il più capace di intessere un rapporto di familiarità, di consuetudine, di fiducia, dentro il quale la trasmissione della fede diventa non solo possibile, ma quasi ‘naturale’. La grande lezione di comunicazione che Francesco ci va impartendo parte dal presupposto ignaziano che ‘Dio è in tutte le cose’, e quindi ovunque va cercato e valorizzato. Come gli antropologi da sempre riconoscono, tutto parla: anche le ‘dimensioni nascoste’ della comunicazione (come le chiamava l’antropologo Edward T. Hall), ovvero lo spazio e il tempo, sono estremamente eloquenti e, soprattutto, in grado di favorire (o ostacolare) la relazione.

L’immaginazione al… Vangelo, cioè della relazione

C’è una convinzione che mi accompagna da tempo e che ho trovato sapientemente articolata in un testo di Nicolas Steeves, intitolato “Grazie all’immaginazione. Integrare l’immaginazione in teologia fondamentale”. La Chiesa moderna, per una malintesa forma di attenzione alla razionalità positivista ereditata dall’Illuminismo, ha progressivamente sguarnito il campo dell’immaginazione popolare. Ha finito così per lasciare in mano all’industria culturale che oggi coincide con quella del puro intrattenimento, un vasto campo di esperienza che è destinata a lasciare una traccia nel cuore delle persone. E’ così accaduto che i media popolari, e in specie quelli commerciali, hanno avuto campo libero per “ri-evangelizzare”(si fa per dire!), colonizzando di fatto l’immaginario pubblico con suggestioni e provocazioni nel segno delle rappresentazioni religiose utilizzate a scopi addirittura pubblicitari. A conferma del fatto che esiste un immaginario che è ancora cristiano (cf. A., Zaccuri, In terra sconsacrata, Perché l’immaginario è ancora cristiano, Milano, 2008) anche se l’immaginazione diffusa se ne sta discostando inesorabilmente. Come spiegare diversamente alcuni anni fa il successo editoriale de ‘Il Codice da Vinci’ (2004) o di ‘Angeli e demoni’, sia nella versione cartacea che in quella filmica? Così come “Le cronache di Narnia” di Lewis o le saghe di Tolkien.

L’immaginazione della gente comunque va nutrita e se non trova il nutrimento va in cerca di surrogati che oltre a portare fuori strada, possono bloccare la ricerca attiva di un significato cristiano della realtà. E’ interessante notare che mentre da certe chiese e perfino cattedrali – per lo più superfici aniconiche in cemento armato – sono sparite le rappresentazioni di soggetti sacri, al contrario il grande schermo pullula di serial dedicati agli spiriti alati e la TV fa il pienone sulla vita dei santi o comunque grazie a film di soggetto biblico.

La mancanza di immaginazione è un colpo all’evangelizzazione. Furono alcuni teologi protestanti a reagire per primi agli eccessi del razionalismo storico-critico. Nella sua Dogmatica Barth difende strenuamente lo status epistemologico dei racconti biblici della creazione e con la sua consueta verve precisa: “Dobbiamo liberarci e sbarazzare radicalmente dal nostro spirito l’idea che ci fu imposta (…), secondo cui un’esposizione e una descrizione ‘non storiche’ della storia sarebbero di qualità inferiore, o sospetta, o persino da rigettare completamente. Quest’idea in fondo è un pregiudizio ridicolo, un’abitudine borghese dello spirito occidentale moderno che, nella sua mancanza ridicola d’immaginazione, è sommamente estrosa, e crede di potersi liberare dai suoi complessi soffocandoli” (K. Barth, Dogmatique, 3° vol., t. I, cap IX, §41, Labor et Fides, Genève 1960, 82). Per non parlare del linguaggio del Maestro e della sua predilezione per il genere letterario parabolico, che riflette lo stile sapienziale della Scrittura, ma introduce pure la possibilità di una rivelazione che tocchi l’immaginazione. Se questo è vero, mi pare che ci siano alcune opportunità che non vanno ulteriormente disattese, a partire dal mutato contesto culturale e che potrebbero aiutare a definire alcune inter-azioni da valorizzare nel vostro impegno quotidiano di professionisti della comunicazione.

Un primo livello di interazione riguarda anzitutto il discernimento culturale che va vissuto non come desolazione, ma come consolazione spirituale. È certamente da annoverare tra le sfide e i nodi problematici della contemporaneità la non immediata evidenza di Dio, inteso in una forma personale. In una parola la trascendenza non è più un fatto ovvio e direi neanche possibile ordinariamente. In un contesto come il nostro poi chi osi rappresentare qualcosa che vada oltre il contingente ed afferrare la verità dell’insieme è visto normalmente con sospetto. Ciò spiega perché da questo clima il primo annuncio riceva un colpo letale, simile alla delusione di Paolo nell’Aeropago di Atene (cfr. At 17). Proprio questo apparente insuccesso ci offre però lo spunto per acquistare un atteggiamento di fondo verso la cultura che ci circonda. E’ lo stesso Paolo, insuperato comunicatore, ad offrircene il senso. Inizialmente l’Apostolo viene descritto con un’espressione inusualmente forte: “Il suo animo si infiammava di sdegno vedendo come la città era piena di idoli”. Poi però il discorso sembra cambiare ritmo e tono, quando giunto all’Aeropago comincia a lodare gli ateniesi per la loro spiccata religiosità ed interpreta perfino l’altare dedicato al dio ignoto, non come una forma di idolatria, ma come un segno dell’autenticità dei sentimenti religiosi degli ateniesi. Paolo quindi concentra la sua attenzione sul desiderio di Dio che vede inscritto perfino dentro la poesia dei greci e commenta che tutti cercano Dio e Dio non è lontano da alcuno perché “in lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (17,28). Il passaggio di Paolo dal disgusto all’identificazione dei semi del vangelo in seno alla religiosità pagana, sembra un esempio del contrasto tra la desolazione e la consolazione che sottende ogni discernimento. “Non ci può essere, perciò, alcun discernimento reale della cultura senza la consolazione come un atteggiamento basilare, come una tonalità e una fiducia che libera la nostra disposizione per comprendere con un pizzico della sapienza di Dio. La consolazione non è sinonimo di un modo di vedere tinto di rosa; di fatto comporta una duplice aspettativa: ci saranno dei conflitti, delle ambiguità e degli antivalori da detronizzare, e ci saranno segno di speranza e di desiderio reale che sono frutti dello Spirito. Nessuna situazione è irredimibile” (GALLAGHER, Fede e cultura, un rapporto cruciale e conflittuale, Milano, 1999, 171): dobbiamo giudicare, ma sempre evitando di gettare via il bambino con l’acqua sporca!

Un secondo livello di interazione implica, dopo il discernimento, è curare il primo annuncio in lingua corrente. Se è vero infatti che siamo dentro ad una cultura di “oralità secondaria”, non dobbiamo dimenticare che questo non significa un puro e semplice ritorno all’indietro, dimenticando l’impatto della scrittura. L’oralità di oggi, quella che vediamo all’opera nelle radio o nei talk televisivi passa attraverso il rigoroso setaccio dell’analisi, per cui perfino il reality più diffuso, cioè il Grande Fratello, è costruito dalla prima all’ultima sequenza, fino al punto da apparire del tutto spontaneo. Nel nostro tempo ci siamo riabituati all’espressione orale, ma ad un’oralità pianificata e cosciente di sé non spontanea ed innocente come quella primitiva. L’oralità secondaria conferma ulteriormente che il linguaggio più adatto alla comunicazione religiosa anche ai nostri giorni è quello che sa parlare all’immaginazione (attraverso il racconto), un linguaggio che deve sostenersi attraverso simboli e immagini (non solo con argomentazioni convincenti e logiche), ma al contempo deve essere pianificato, organizzato, non offensivo per le capacità logiche e analitiche sviluppate dal pensiero assuefatto alla lettura e alla scrittura, e che perciò pretende coerenza nello svolgimento di qualunque discorso. Ciò vuol dire misurarsi con l’ambiente culturale all’interno del quale si svolge ogni comunicazione religiosa e in cui si dà o si nega la possibilità di incontrare Dio. Così come nel Medioevo il materiale di costruzione dei monasteri e delle cattedrali era spesso costituito dai capitelli e dalle colonne dei templi pagani, così fuor di metafora chi oggi voglia impegnarsi ad annunciare il Vangelo deve conoscere in modo professionale i meccanismi del linguaggio narrativo e simbolico e le regole comunicative. Di più: conoscere i film, le canzoni, i programmi e le trasmissioni non è facoltativo per chi cerca vie nuove per far risuonare la parola del Vangelo. Volendo provare a fare un’ultima esemplificazione rivolta direttamente a noi preti: non è possibile che si studi per anni negli istituti teologici e non si curino poi le regole fondamentali della comunicazione orale. Non si può pensare di reggere l’urto della predicazione che resta “un amore deluso” per la gran parte delle persone e perpetuare questa forma di pressapochismo e di dilettantismo per cui si ritiene di poter tener desta l’attenzione ben oltre i 10 minuti, senza il corredo di una particolare “abilità linguistica”, che prevedeva già nell’antica forma della retorica di saper divertire, edificare e commuovere.

Infine un terzo livello di interazione che è quasi una diretta emanazione dei primi due è, dopo il discernimento e l’integrazione, il feedback, ovvero il superamento coraggioso delle logiche di annunzio unidirezionale e incapaci di valutare la propria stessa ricezione, ritenuta, a torto, del tutto marginale. Il successo di un annuncio all’altezza della nostra era sta in un’attenzione tutta speciale alla connaturalità comunicativa tra l’emittente, il messaggio e i suoi possibili recettori, sul modello del Dio che ha preso carne per parlare ad ogni carne. Nuovi tempi esigono un annunzio che si offra come comunicazione dimensionata: proporzionata cioè alle coordinate e ai registri espressivi/recettivi dell’essere umano, capace di farsi capire, di accogliere e di farsi accogliere. In concreto ciò vuol dire in primo luogo verificare sempre quel che “passa” a partire dallo sguardo dell’interlocutore, senza lasciarsi assorbire dalla cura dei contenuti al punto da dimenticare l’interlocutore a cui dirigersi. Non basta essere sicuri di aver realizzato la comunicazione per star tranquilli: occorre provarne l’efficacia oltre che la pura efficienza. Nell’intercettare l’altro non è poi inutile graduare l’annuncio tenendo presente che non tutto è allo stesso livello e che esiste una “gerarchia delle verità”, che va tenuta presente non solo nel dialogo ecumenico (cfr. Unitatis redintegratio), ma anche nell’approccio a persone che devono prima poter cogliere la sostanza della proposta cristiana sia a livello dogmatico che etico e solo poi addentrarsi in questioni di dettaglio. Se si perde il centro, la periferia diventa incomprensibile. Infine il primo annuncio, per il suo carattere essenziale e direi quasi genetico, deve arricchire sè stesso a partire dalle domande che uniscono e che sono la condizione per poter avviare quell’apertura di credito che fa passare dall’indifferenza all’attenzione e dall’attenzione all’ascolto.

Su queste tre piste – quella del discernimento, quella della lingua corrente e quella del feedback – bisognerà verificare la serie dei linguaggi messi in campo dai Paolini ieri come oggi per un degno primo annunzio della fede. Comunicare il lieto annunzio di Colui che viene nella storia umana significa sempre (re)imparare a dirne la novità. Il cristianesimo non smette di essere nuovo, ma – soprattutto – non affida la propria novità all’obsolescenza di questa o quella tecnologia. La sua novità è l’eterno presente – eternamente attuale, eternamente fecondo – di una Parola che racconta l’oggi della storia con la voce suadente di un’Origine mai dimenticata. Il cristianesimo è questa Origine sempre presente, sempre attuale. Essa – sillabata negli spazi e nei tempi dell’incarnazione, della morte e della risurrezione del Cristo – si offre a noi come salvezza: predicare allora l’inevitabile ricaduta antropologica e sociale del suo annunzio è l’atto minimo di giustizia che possiamo rendere a un Dio che in Gesù non si è “detto” a noi, ma si è “dato”: come mezzo e messaggio insieme; come “via, verità e vita”.

Lavori di gruppo

«… è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno» (Francesco, Lettera al popolo di Dio, agosto 2018).

  • sei consapevole che la chiesa ha bisogno di riforme strutturali?
  • sei disposto a metterti in discussione in vista della loro realizzazione?
  • sei consapevole che la prima riforma è uscire dal clericalismo?
    • cosa significa per il clero “uscire dal clericalismo”?
    • una questione morale o sistemica?
    • la questione discriminante, le donne: non sarà il paternalismo a salvarci dal patriarcato
  • sei consapevole che è ormai indispensabile “ripensare l’umano”, le strutture dell’umano, le relazioni umane (affettive, sessuali, politiche…)
    • una formazione personale alle relazioni
    • una pastorale delle relazioni
  • sei consapevole che la chiesa, in tutte le sue strutture, o diventa sinodale o è condannata all’insignificanza?
    • strutture di sinodalità
    • procedure di sinodalità
  • sei consapevole che oggi il primo passo in vista della comunione non è la sudditanza, ma la democrazia?
  • sei consapevole che alla chiesa è chiesto di schierarsi a favore della giustizia?
    • carità
    • volontariato