Il futuro della natura: le domande della filosofia

Incontro «Filosofia e Natura» al liceo Elena Principessa di Napoli
29-01-2021

La filosofia interroga

“Come deve essere il mondo perché il martire possa vivere?”. A partire dalla domanda attribuita a Platone e indirizzata alla politica, ci interroghiamo su come debba essere il mondo perché non ci siano altri martiri, cioè altre vittime.

La domanda che nasce dalla filosofia è come immaginare il mondo, in altre parole, come pensare il futuro. Non è una domanda innocua. Non c’è più il futuro di una volta, un futuro sul quale si poteva scommettere perché sicuramente avrebbe portato qualcosa di meglio, meno ingiustizie e più prosperità. Un tempo era il futuro a sorridere all’umanità e la sola evocazione della prospettiva attirava a sé come una calamita. Era per tutti rassicurante il fatto di avere a disposizione un orizzonte che avrebbe riscattato gli insuccessi del tempo presente, le battute d’arresto, i fallimenti.  La stessa parola ‘progresso’ ha perso via via appeal. E per una ragione semplice: l’andare avanti (il progredior) della gente oggi è meno baldanzoso, più incerto e a zigzagante, scarsamente motivato, anche perché in molti casi il futuro si è trasformato in un gigantesco punto interrogativo. Se fino a qualche decennio fa giovani e futuro facevano coppia fissa, oggi stanno agli antipodi. L’accesso al futuro è contorto, difficile da praticare, spesso bloccato. Se le cose stanno così meglio ripiegare sul presente, dilatarlo all’infinito rendendolo controllabile e gestibile. E al tempo stesso rottamare il passato, mettendolo in soffitta per sempre. In tal senso il presente non è più trampolino al futuro, luogo di progetti personali e tantomeno collettivi, ma un serbatoio di emozioni da collezionare; mentre il passato è zavorra da cui liberarsi al più presto. Come scrive Marc Auge:”Agli occhi dei comuni mortali il futuro non è più frutto della lenta maturazione del passato, non lascia trasparire i lineamenti di possibili futuri, ma si impone come un fatto compiuto, schiacciante, il cui improvviso sorgere fa sparire il passato e satura l’immaginazione del futuro (Cfr. ID, Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, Milano, 2009, 27). D’altra parte il presente è messo sotto pressione da un’accelerazione senza futuro, ben descritta dall’immagine del girare a vuoto in una ruota da criceto, oppure dall’atleta che sul tapis roulant, sigillato dagli auricolari dell’Ipod e con lo sguardo estatico verso i cristalli liquidi di una rappresentazione qualunque, corre a più non posso senza spostarsi di alcunchè (Cfr. S. Tagliapietra, Prefazione a D. Fusaro, Essere senza tempo, Accelerazione della storia e della vita, Milano, 2010, 17).

Oggi dunque il futuro non è agognato, perché in esso non si prefigura niente di buono. E quel che più impressiona è che nonostante strumenti tecnici di misurazione impensabili fino a pochi decenni fa non riusciamo a prevedere quel che accadrà, fa notare sempre M. Augè. Non abbiamo previsto il ’68, o l’occupazione della scena pubblica da parte dell’Islam, o la caduta del muro di Berlino, o la crisi del 2008, o la … pandemia..

         

“Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”

Il COVID – 19 ha impresso una forte accelerazione a processi già in atto. La pandemia ha funzionato da catalizzatore di dinamiche esplose nelle loro interne contraddizioni. Lavoro, casa, ambiente o salute, comunità si sapeva da tempo che erano nodi cruciali. Ma quel che è accaduto ha mostrato che non possiamo più far finta di non vedere quanto insostenibile sia un futuro che oggi appare come il nostro passato. E’ evidente che dobbiamo cambiare, ma è ancora più chiaro che la vera questione è se abbiamo voglia di farlo. Non ci sono uscite di sicurezza. Anche perché ogni volta che c’è una crisi si fa strada un’inedita possibilità. Così avvenne, ad esempio, dopo la grande depressione del 1929 che aprì le porte ad una politica economica radicalmente diversa, quella keynesiana, che diede alla luce il Welfare State (il “Rapporto Beveridge” è del 1942) e il sogno di una casa comune europea. Furono queste le basi di quello straordinario periodo di prosperità e di benessere economico (almeno in Occidente) degli anni del boom economico nel secondo dopoguerra. Dar voce ad una nuova immaginazione del reale è quanto ci proponiamo.  Siamo in una fase ancora in piena pandemia globale in cui è più facile comprendere che “tutto è connesso” (cfr. Laudato sì, 2015)  e che l’essere umano non è un individuo isolato, ma una persona in relazione. Una svolta sociale e culturale che prelude ad una transizione ecologica  che potrebbe rivelarsi nei prossimi decenni decisiva, come fu l’invenzione della stampa nel XV secolo o la rivoluzione industriale nel XIX secolo. O si riesce ad innescare questa transizione ecologica e se ne parlerà nei libri di storia; o non si riesce, e forse se ne parlerà fra due generazioni, ma in termini ben diversi.

Il sogno metafora di un progetto

Il tema dei sogni evoca il passo del profeta Gioele: ”Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni” (Gl, 3,1).

Papa Francesco è l’unico leader mondiale che a partire da questa visione intende proporre qualcosa al mondo di oggi perché sa che si sta decidendo del futuro. Scrive, infatti: ”Abusare della natura significa abusare degli antenati, dei fratelli e delle sorelle, della creazione e del Creatore, ipotecando il futuro” (Querida Amazonia, 42).  Nella scelta dei “sogni” piuttosto che dei “temi”, si esprime – talora in forma poetica  – un approccio che intende contestare quello efficientista, tecnocratico e consumista.

Ascoltare il grido della terra e quello dei poveri: il sogno sociale

“Sogno un’Amazzonia che lotti per i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità promossa” (QA 7).

Il primo sogno è ritrovare quella sapienza ancestrale che fa del “buon vivere” l’alternativa al moderno ed efficientistico “vivere sempre meglio”. Le cause scatenanti la selvaggia devastazione del bioma sono il disboscamento e l’estrattivismo. Si delinea così il primo grande principio da cui ripartire: “oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri” (LS 49). In passato si è presentata l’Amazzonia come “un’immensità selvaggia da addomesticare” (QA 12), ma questa ipoteca colonialista non sta in piedi e richiede di prendere le distanze anche da taluni atteggiamenti neocolonialisti. Per affrontare la sfida di una società che rischia il collasso nelle bidonvilles metropolitane (schiavitù, sfruttamento sessuale e tratta di esseri umani) si impongono due vie: protagonismo e comunità. I veri attori sociali sono gli indigeni che vanno rispettati e valorizzati (QA 40) . Ma c’è bisogno pure che si sviluppi il senso della comunità e del dialogo sociale, messi a dura prova dai popoli indigeni che rischiano di dividersi e di perdere il senso della lotta comune.

La dialettica tra foresta e città: il sogno culturale

“Sogno un’Amazzonia che difenda la ricchezza culturale che la distingue, dove risplende in forme tanto varie la bellezza umana” (QA 7).

Se il sogno sociale richiede una voce profetica, si impone un sogno culturale che sappia mettere in crisi la tentazione neo-colonialista che si annida dietro la globalizzazione. Popoli abituati ad avere relazioni umane “impregnate dalla natura circostante” ( QA 20) sono costretti a vivere in città nelle periferie o sui marciapiedi in una situazione di degrado umano che fa perdere loro i riferimenti di sempre. “Così si interrompe la trasmissione culturale di una saggezza che ha attraversato i secoli, di generazione in generazione” (QA 30). Dietro i più di 110 popoli indigeni in stato di isolamento volontario (PIAV) si nasconde però un’altra insidia che è il particolarismo indigeno. Il dialogo tra città e foresta è necessario, ma deve adattarsi alla ricchezza poliedrica delle culture indigene, cioè alla varietà dei gruppi umani, degli stili di vita e delle visioni del mondo che si riflettono nei diversi contesti geografici e culturali: i villaggi di pescatori, i villaggi di caccia, quelli di raccolta nell’entroterra o i villaggi che coltivano le terre alluvionali.

Cura delle persone e degli ecosistemi: sogno ecologico

“Sogno un’Amazzonia che custodisca gelosamente l’irresistibile bellezza naturale che l’adorna, la vita traboccante che riempie i suoi fiumi e le sue foreste”(QA 7).

Così si fa strada il ‘sogno ecologico’. In una terra come l’Amazzonia che è fatta di acqua e di piante è più facile cogliere l’interrelazione profonda tra uomo e natura . Di qui l’obbligo di gestire il territorio in modo sostenibile senza l’ingenuità di sottostimare gli interessi economici degli imprenditori e dei politici locali, come pure degli interessi economici internazionali. Ci sono attacchi alla natura che hanno conseguenze per la vita delle popolazioni: dai megaprogetti non sostenibili ai progetti idroelettrici, concessioni forestali, disboscamento massiccio, monoculture, infrastrutture viarie, infrastrutture idriche, ferrovie, progetti minerari e petroliferi.

Alcune idee ingenue per il futuro

Se dovessi richiamare alcune “idee ingenue, vorrei far riferimento a  tre “conversioni” da attuare.

La prima è una “mutazione” sociale. L’idea che ha alimentato la crescita degli ultimi secoli – quella secondo cui il semplice perseguimento dell’interesse individuale e la nostra capacità tecnica sono sufficienti per creare ricchezza collettiva – si rivela sempre più inadeguata. Al punto in cui siamo, è necessario un cambio di passo. Abbiamo bisogno di ricomporre su basi nuove la possibilità di espressione dell’io con la cura del contesto circostante; l’organizzazione dei sistemi tecno-economici con le esigenze dell’ecosistema; le nostre certezze scientifiche con lo spazio del mistero. Solo per questa via l’essere umano può arrivare a capire che la condizione di libertà che lo caratterizza non cancella, bensì esalta, la sua responsabilità – cioè il suo essere in relazione – rispetto a ciò che lo circonda. È questa la  conversione che ha bisogno, per potersi realizzare, di un tipo d’uomo diverso da quello oggi dominante. E di gente di buona volontà che insieme dia testa, gambe e cuore ad un mondo diverso. Tale è la conversione ‘sociale’ da attuare: da individuo a persona.

L’altra “mutazione” è quella culturale che segna il passaggio dalle cose alle relazioni. Il nostro modo di pensare è ancora dominato da una filosofia profonda e implicita, di natura aristotelica e newtoniana, ormai obsoleta. Si immagini una grande scatola, lo spazio, in cui le persone-mattoncini interagiscono, in modo lineare e irreversibile, lungo la freccia del tempo. Il paradigma aristotelico-newtoniano ha avuto i suoi meriti, ma oggi non risponde più alle esigenze di una società matura dell’informazione, cioè una società in cui le aspettative dei suoi membri assumono il digitale come un fenomeno scontato. Il mondo di prima è organizzato come un Lego: anzitutto ci sono le cose (sostantivi), poi ci sono le proprietà delle cose (aggettivi) e infine i comportamenti delle cose (verbi). Nel mondo di oggi si impone la relazione e si guarda al mondo come a una rete, non come a un meccanismo.

La terza “mutazione” è ecologica ed ha a che fare con il passaggio dal fare al contemplare. Il che consente di ritrovare uno sguardo autentico che cambia il nostro approccio. Siamo troppo schiacciati su programmi da definire o agende da attuare. L’invito in materia di evangelizzazione è quello di “rompere tutti gli specchi di casa ” e, cioè, sottrarsi all’autoreferenzialità, aprendosi ad una capacità contemplativa che rende persuasi di dove siamo e di che cosa sia davvero determinante. Qui l’accento è posto su una nota distinzione aristotelica tra “agire”, dare un senso, una direzione di marcia al proprio stare al mondo, e   “fare”, limitarsi ad eseguire un compito. Venendo alla chiesa per tornare ad essere presente nella città dell’uomo, dovrà riscoprire la sapienza biblica e la centralità della categoria di creazione nel suo annuncio di fede.