Giovedì Santo

(Es 12, 1-8.11-14; Sal 115; 1 Cor 11, 23-26; Gv 13, 1-15)
01-04-2021

«Li amò sino alla fine». Giovanni non fa menzione dell’ultima cena e al suo posto introduce la lavanda dei piedi. Si tratta di un gesto che è segno dell’ospitalità sacra in Oriente,  ma viene  collocato non all’ingresso della casa, ma durante la cena; è compiuto dal Maestro in persona e non dallo schiavo di turno e comunque da un non ebreo, preferibilmente da una donna. Per questo Pietro reagisce: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Nel gesto di Gesù c’è dentro un’allusione alla kenosis di Dio che si è fatto uomo, ma nella reazione di Pietro c’è qualcosa di più profondo da cogliere. Il discepolo vorrebbe lavare lui i piedi al Maestro. Invece il nocciolo della questione è lasciarsi lavare: credere, cioè che sia Dio a fare ciò che è necessario e sufficiente nella vita. I piedi, peraltro, non sono un dettaglio perché dicono chi siamo, i piedi non mentono. Dio interviene proprio là dove c’è più bisogno, nelle parti più scabrose e più nascoste della nostra esistenza.

Che cosa ci dice questo che non è tanto un exemplum, ma un sacramentum, cioè un segno da decifrare?

Gesù denudato come uno schiavo, inginocchiato ai piedi dei suoi, dice che l’amore cristiano non è fatto di grandi sentimenti, non si nutre di eros o di passione, ma è un lavoro su di sé prima di essere un lavoro verso l’altro. Io lavo i piedi a te se non mi faccio prendere dalla paura e dall’arroganza e ti accolgo per quello che sei.

La lavanda è un fatto reale anche in questo momento. Ci sono uomini e donne che stanno lavando i piedi, o le parti intime del corpo, a malati e a malate che non riescono più a farlo da sé; ci sono genitori che lavano i figli handicappati, ci sono figli che lavano gli anziani genitori. È una reciprocità che commuove e deve farci comprendere che la legge della vita è questa cura reciproca che va in entrambe le direzioni.

Così la lavanda ‘purifica’ il nostro sguardo su Dio e ci fa comprendere il primato della grazia rispetto alla nostra autosufficienza. E allo stesso tempo ci fa crescere in quel senso di reciproca appartenenza in cui prendersi cura gli uni degli altri. In una parola ci libera da quel mito dell’autosufficienza che porta a chiuderci agli altri e a Dio. Secondo Platone Eros è figlio di Poros (ricchezza) e Penia (povertà). Per questo è un andare verso l’Altro e verso l’Alto.