Discorso all’incontro con i sacerdoti, i religiosi e i diaconi

Greccio, Oasi Bambino Gesù
18-01-2018

«Pertanto i presbiteri sono debitori verso tutti, nel senso che a tutti devono comunicare la verità del vangelo» (PO, 4). Così il Vaticano II nel decreto sulla formazione dei presbiteri mostra la volontà di mettere al primo posto le esigenze oggettive del popolo di Dio, al cui servizio i presbiteri si pongono. Queste ‘esigenze oggettive’ sono esigenze tanto del popolo di Dio quanto nostre di vescovi, preti e diaconi. Anzi, in queste esigenze, noi rintracciamo la verità della nostra vocazione e missione.

Nel suo viaggio in Cile, papa Francesco non più tardi dell’altro ieri, ha reso più comprensibile questa volontà del Concilio dicendo ai vescovi locali: «uno dei problemi che affrontano oggigiorno le nostre società è il sentimento di essere orfani, ovvero, sentire di non appartenere a nessuno. Questo sentire ‘postmoderno’ può penetrare in noi e nel nostro clero; allora incominciamo a pensare che non apparteniamo a nessuno, dimentichiamo che siamo parte del santo Popolo fedele di Dio e che la Chiesa non è e non sarà mai un élite di consacrati, sacerdoti o vescovi. Non potremmo sostenere la nostra vita, la nostra vocazione o ministero senza questa coscienza di essere Popolo”. E ha concluso chiedendo allo Spirito “di sognare e di lavorare per una opzione missionaria e profetica che sia capace di trasformare tutto, affinché le abitudini, gli stili, gli orari, il linguaggio ed ogni struttura ecclesiale diventino strumenti adatti per l’evangelizzazione del Cile più che per un’autoconservazione ecclesiastica. Non abbiamo paura di spogliarci di ciò che ci allontana dal mandato missionario».

Vorrei che il nostro confronto di oggi partisse dallo scarso senso di appartenenza che si registra nella chiesa per individuare quali abitudini, stili, orari, linguaggio dobbiamo aggiornare per evitare di puntare solo all’autoconservazione. Che deve tener conto di un dato anagrafico oggettivo per quanto riguarda noi pastori.

Se si guarda a quelli che siamo il numero dei preti diocesani incardinati è 72, di cui 5 fuori diocesi, 4 quiescenti, 3 in salute precaria, 1 in via di uscita. Totale incardinati 61. Di questi sotto i 40 anni sono 5 e 16 sopra gli 80. I diaconi sono 16. Sotto i 50 ce n’è uno, mentre oltre i 70 ce ne sono 7. Che cosa ci suggerisce questa parabola biologica?

Mi limito a quattro osservazioni di contesto rispetto alla urgenza di metterci sulla strada dell’evangelizzazione oggi.

Abitudini dice della consueta attività pastorale fatta di messe, processioni, catechismo. Resta da capire se altre iniziative possono essere intraprese. Teniamo ancora il rapporto con la gente oppure siamo diventati invisibili ?

Stili suggerisce la postura del pastore che si rapporta con il mutato contesto della gente sempre più dispersa e isolata, in una parola orfana. Quale è il nostro atteggiamento: quello di chi vuol rompere l’isolamento o di chi sa di soccombere alla progressiva disaffezione della gente?

Orari suggerisce la serie degli appuntamenti che possono essere cambiati in direzione dei nuovi stili di vita. Un tempo esisteva la messa dei pastori alle 5 del mattino alla domenica. Oggi alle 5 rincasano. Che fare di nuovo?

Linguaggio: siamo consapevoli che la comunicazione segna in profondità la gente e modifica il rapporto tra di noi? Cambia qualcosa nella nostra maniera di esprimerci, di coinvolgere gli altri o siamo sempre uguali a noi stessi?

Vorrei prima di cedere la parole dire con semplicità alcune sfide che dobbiamo affrontare per rispondere alle domande. Mi limito a quattro inviti fraterni rivolti prima a me e poi a voi.

Ri-animare il tempo

Cioè, ordinarlo, secondo una scala di priorità che non lo faccia essere un vuoto a perdere, ma restituisca finalità al proprio servizio. Questo è necessario sia che si abbia troppo o troppo poco da fare.

Riumanizzare le relazioni

«Imparino a stimare quelle virtù che sono tenute in gran conto fra gli uomini e rendono accetto il mistero di Cristo, quali sono le lealtà, il rispetto costante della giustizia, la fedeltà alla parola data, la gentilezza del tratto, la discrezione e la carità nel conversare» (OT, 11) si dice a proposito dei futuri preti. Quando manca la consistenza umana anche il dato sacramentale rischia di apparire una maschera che rilancia un cero docetismo di maniera per cui l’umano è secondario. Non solo. Enfatizza la diversità per rimarcare il proprio status. Evita l’incontro con l’altro che è fatto di reciprocità e di gratuità.

Superare l’isolamento che diventa latitanza pastorale

Se manca la consistenza dell’umano, salta anche la crescita spirituale e si finisce per concepirsi in modo separato dal Popolo con alcune forme caricaturali di isolamento che già il card. Montini evidenziava nel lontano 1961:”Davvero si stenda fra noi una rete di affezione, una nuova e più sentita e più solida e più espressa e più vera carità. Se mai uno spirito di isolamento (io faccio da me), uno spirito di indifferenza (che me ne importa degli altri?), uno spirito di pura osservazione (io sto a vedere gli altri), uno spirito di sufficienza (io non ho bisogno di alcuno) fosse in noi, sia sgombrato il nostro animo da questi arresti, da queste paralisi della carità e sentiamoci davvero quello che il Signore ha voluto che fossimo: fratelli. (…). Dobbiamo far vedere che il Clero è unitissimo, che il Clero è compatto, che il Clero è esultante della sua solidarietà”.

Diversamente il rischio dell’autarchia dottrinale è sempre in agguato. E consiste nel dare spazio a pratiche di pietà a prescindere dalla Parola. Anche l’autarchia liturgica è pericolosa laddove si rimuovono altari, si compromette la riforma liturgica con disinvoltura (es. comunione nelle mani, con decreto della Santa Sede del 14 luglio 1989, entrato in vigore dal 3 dicembre 1989). E infine l’autarchia pastorale, in cui ciascuno si sente il padrone che tiene in ostaggio le sue pecore oppure si rende ostaggio di qualcuno. Di qui l’esigenza di vivere anche oltre la parrocchia che non è mai autosufficiente e raccogliere le sfide più ampie (giovani, famiglie, vocazioni). Tale latitanza pastorale finisce per trasformarsi in una sorta di congedo dal Popolo abbandonato al suo destino.

Infine, lo studio

Già san Gregorio Magno stigmatizza i pastori irresponsabili definendoli ‘ignoranti e faciloni’. Ciò che va studiata è la Parola di Dio perché si tenga l’altezza del proprio compito immerso in tante questioni, perché si sappia rispondere alle domande delle persone in ricerca, perché solo così la Chiesa cresce e resiste.

E ora ciascuno parli con libertà e carità.