Confessare – Conclusioni dell’incontro pastorale

Discorso di mons. Domenico Pompili a conclusione dell'Incontro pastorale della Chiesa di Rieti
11-09-2016

Una vignetta che dà a pensare

La vignetta di Giannelli può essere eletta a icona di questo Incontro pastorale. L’orologio della torre campanaria segna le 3.36. La bambina, in braccio a un soccorritore, cerca di spostare in avanti la lancetta.

Tutto riparte dall’abbraccio di un adulto verso una bambina che sostiene e che solleva. La bambina è il simbolo della speranza, della Chiesa, dell’umanità che non si arrende e riprende il cammino. L’adulto dice che accompagnare è ritrovare il legame tra le generazioni.

È la bambina che ci spinge a far ripartire la lancetta dell’orologio. Sono i più giovani quelli cui è destinato il compito più importante ed è a loro che bisogna guardare anzitutto. Ricostruire si può solo facendo leva sulla giovinezza anagrafica e spirituale che rinnova il nostro modo di crescere insieme.

Infine, è l’orologio della torre civica l’orizzonte della nostra attenzione, ancor prima che il campanile. Non ci interessa ripartire solo dal nostro, ma ampliare lo sguardo a tutta la realtà, di cui la Chiesa vuol essere fermento di umanizzazione, «segno e strumento dell’unità del genere umano». Imparare a credere significa trasformare il mondo piatto in una realtà profonda, lo spazio in un luogo abitato e abitabile da tutti.

Le lancette ferme dell’orologio (provocazioni dai gruppi di studio)

Uno sguardo disincantato ma realista

La nostra Chiesa è divisa. Ognuno pensa al proprio orto. C’è solitudine.

Ci si concentra sulla liturgia e poco sulla Parola.

Manca una vera educazione spirituale: ad esempio, non sappiamo che cosa è la preghiera.

Dietro la fede, che fatica a svilupparsi, manca la famiglia e il rapporto tra le generazioni è in crisi. Con i ragazzi e i giovani è un problema.

C’è freddezza nei rapporti umani e chi lavora con la disabilità sente le istituzioni distanti.

Ci piangiamo troppo addosso.

La nostra Chiesa è invecchiata, stanca, ma soprattutto disorientata.

Siamo una Chiesa “senza ansia apostolica”.

La nostra è  una Chiesa frammentata, dove ognuno tende ad ‘assolutizzare’ la propria esperienza e il proprio ruolo.

La condizione previa per rispondere alle necessità delle persone e, soprattutto, per non correre il rischio di lasciare indietro le persone più deboli e smarrite è l’ascolto.

Bisogna coltivare un atteggiamento di accoglienza e di dialogo.

La prassi sacramentale è superata dai fatti.

I giovani e gli adolescenti hanno un forte bisogno di spiritualità, che a volte però vanno a cercare altrove. I giovani, anche se pochi, vanno valorizzati di più.

Per i giovani non bastano eventi: ci vuole un appuntamento fisso di condivisione. Di qui l’idea di un centro permanente di spiritualità e, magari, quella di riaprire il Seminario diocesano.

Servirebbe un calendario diocesano per conoscersi e stimarsi reciprocamente.

Ci sono credenti /non praticanti, ma anche praticanti/non credenti.

«Gareggiate nello stimarci a vicenda». Mettere in comune i carismi e le risorse.

In certi casi le parrocchie sono chiuse e asfittiche. I movimenti devono essere aperti e comunicare.

Una terapia concreta ed esigente

Occorre ritrovare un cammino comune, che riguarda tutti, che va fatto insieme e che passi dalla conoscenza (dialogo) all’accoglienza (incontro stabile e non occasionale).

Occorrono spazi di incontro, dove ritrovare l’arte del dialogo rivitalizzando gli organismi di partecipazione (consigli pastorale, presbiterale, ecc.).

Occorre concentrarsi sulla dinamica della fede, che, per i più giovani, è una ‘lingua straniera’. Essa ha bisogno di superare la distanza tra la dottrina e la vita e deve farsi carico del mondo dei giovani, che non sono distanti, ma, più semplicemente, non interessati, perché non trovano coerenza tra il dire e il fare.

Bisogna puntare molto sulla formazione per maturare una vera identità cristiana. Una particolare attenzione va data ai giovani, coltivando la formazione permanente degli operatori pastorali.

Servono un incontro mensile nelle vicarie e un’articolazione più fluida tra centro e periferie: mancano ponti che articolino questa diversità.

Occorre un progetto comune tra laici e pastori per costruire, camminando, la Chiesa del futuro. Ma i pastori si lasciano consigliare? Accettano i progetti e le istanze dei laici?

Importante è la reciprocità: tra giovani ed adulti.

Si deve superare il campanilismo parrocchiale, così da poter lavorare insieme all’interno delle zone pastorali.

Bisogna riservare attenzione alle realtà periferiche della diocesi e creare “alleanze fantasiose”.

Nel confronto con i più fragili è necessario che la Chiesa mostri il suo volto più autentico.

Si deve valorizzare l’esperienza di piccoli gruppi e favorire la nascita di centri d’ascolto per famiglie.

Occorre dare più spazio alla comunicazione di azioni e di esperienze, valorizzando «Frontiera» come strumento informativo e formativo.

Il terremoto è una situazione anomala, che rimette a fuoco le ragioni del credere. La tabula rasa che si produce, con i suoi lutti indicibili, diventa anche la prova del nove della consistenza delle nostre convinzioni. Non è senza significato che Gesù faccia sovente riferimento «a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia» e a un altro «uomo che ha costruito una casa sulla terra, senza fondamento» (Lc 6, 46-49). La differenza di tenuta passa per la roccia, che è la Parola non semplicemente ascoltata, ma messa in pratica, cioè realizzata. Le fondamenta non si vedono a occhio nudo. Ci si accorge di esse solo al momento del test imprevedibile. Così le fondamenta della fede si manifestano nei momenti di crisi e lasciano comprendere ciò che è solido e ciò che non lo è. Se a questa immagine della casa affianchiamo quella delle pietre che la compongono, non si fatica a evidenziare un altro aspetto decisivo e cioè la stabilità che è data dalla connessione delle stesse. Qui si intuisce che non basta solo l’io credo del singolo se non si giunge al noi della Chiesa. Me/We è stato il logo del Meeting dei giovani. Esso dice con chiarezza che solo il passaggio da quello che è mio al noi garantisce la tenuta della casa comune che è la terra e la Chiesa.

Ma concretamente che bisogna fare? Semplicemente tre cose.

Accompagnare

Come il soccorritore della vignetta, bisogna coinvolgersi personalmente. Non bastano più le analisi. L’idea della crisi non può essere un alibi. La crisi deve piuttosto provocare un sussulto di vitalità e di resilienza. Occorre per questo scendere in strada, sollevarsi dalla comodità del divano, del «si è sempre fatto così» (EG) e provare ad abbracciare e a sostenere la vita delle generazioni, a cominciare dai più giovani.

Non si può accompagnare standosene fermi. Così come pure non si può continuare a muoversi senza sapere dove e come. La prof. Giaccardi è stata esplicita e convincente. Occorre mettere insieme mobilità e senso dell’appartenenza a un territorio. Non siamo semplicemente nomadi, ma non siamo neanche stanziali. Solo chi sa di appartenere a un luogo può muoversi senza perdersi. Solo chi si muove fisicamente, ma soprattutto mentalmente, non si trasforma in una fortezza arroccata che subisce il cambiamento incessante dei tempi.

Accompagnare vuol dire una serie di attenzioni. In primo luogo bisogna abitare, cioè inscrivere dei significati nello spazio in cui viviamo. Ciò richiede continuità e spazio per l’ascolto. Senza questa fatica di stare e non solo di transitare non si attiva nessuna relazione. Stare, anzi re-stare vuol dire assumere un contesto, stabilire delle relazioni importanti, costruire una storia insieme. Vuol dire pure educare, che non consiste nell’indottrinare o nel divertire, ma nel tirar fuori il meglio da ciascuno. Oggi prevalgono il demagogo o l’imbonitore, mentre si cerca disperatamente il maestro, che non è una persona perfetta, un eroe senza macchia, ma uno che ti accompagna, che, cioè, fa un tratto di strada insieme a te. Infine, educare vuol dire generare, che è consentire all’altro di superarci, di raccogliere il testimone, di far fruttificare quello che abbiamo ricevuto. Tutto quello che abbiamo non lo riceviamo dai nostri avi, ma lo abbiamo affidato dai nostri figli cui è ultimamente destinato.

Per camminare bisogna farlo con tutti. e non rinchiudersi in cenacoli esclusivi, in gruppi elitari, in cerchi magici. Bisogna provare a camminare con tutti, lasciando a ciascuno la libertà di aderire. Dobbiamo ritrovare il gusto di arieggiare i nostri ambienti polverosi, di spalancare le porte a tutti, anche con il rischio di essere strumentalizzati o inutilizzati.

Ri-costruire

Per ri-costruire bisogna rimettere insieme i pezzi di un puzzle. Anzitutto a livello socio-culturale. Per questo l’invito a pensare la parrocchia e il gruppo ecclesiale, la comunità religiosa all’interno della zona pastorale è essenziale. Qui vanno riprese e ridefinite le zone pastorali, che possono essere ricondotte a cinque. Esse sono: la Valle del Turano, il Salto/Cicolano, l’altopiano amatriciano e leonessano fino a Cittaducale, Rieti dentro e fuori le mura, la dorsale umbra da Contigliano fino a Labro. Optare per le zone vuol dire che preti, religiose e laici devono creare, all’interno di questo spazio, le premesse per un lavoro in comune. Il vicario non è una figura giuridica, ma un riferimento autorevole e sul campo che fa sintesi delle varie istanze e le sa orientare nel cammino diocesano. Il vescovo avrà come suoi interlocutori abituali i vicari di zona. All’interno di ciascuna realtà si creeranno momenti condivisi per alcune priorità: giovani, famiglia, catechesi, carità.

Gli organismi di partecipazione vanno riattivati. Devono farne parte persone di ogni età e sensibilità, con una rappresentanza delle zone pastorali. Vista la crisi di partecipazione che oggi l’individualismo decreta non sarà facile risvegliare questa modalità. Bisognerà evitare che siano sempre gli stessi volti e che chi parla sia anche chi traduce nel concreto. Opinionisti e teorici non sono richiesti. Ci vuole gente che pensa insieme e poi si impegna personalmente. Per verificare le idee.

Gli uffici pastorali e amministrativi devono pensarsi come vasi comunicanti, non come isole felici. Lo scopo deve essere sempre la cura dell’insieme. Bisognerà ritrovare le tre arcate fondamentali: l’evangelizzazione e la catechesi, la liturgia e la preghiera, la carità e la testimonianza. È mia intenzione semplificare gli altri snodi. Attorno all’evangelizzazione bisogna collocare i giovani, le famiglie e il consultorio, le vocazioni, le missioni, l’IDR. Attorno alla liturgia la musica e il canto, la religiosità popolare, l’arte e i beni culturali, l’edilizia di culto. Attorno alla carità la pastorale sanitaria e quella sociale. Non sarebbe male, per valorizzare il nostro territorio francescano, pensare a un ufficio ad hoc che aiuti a ritrovare il genius loci del nostro contesto. Anche qui i tre vicari saranno, insieme a quelli di zona, gli interlocutori privilegiati del vescovo per elaborare decisioni.

La mobilità nelle responsabilità è un criterio che decide della giovinezza e non dell’invecchiamento delle nostre proposte. Alternarsi, cambiare di posto, spostarsi di parrocchia è una maniera esigente e concreta per camminare. Non ci sono posizioni di rendita né forme di inamovibilità, perché si tratta di servizi.

Il calendario liturgico-pastorale deve essere il nostro modo di vivere il rapporto con il tempo. L’anno cui come credenti facciamo riferimento non è quello scolastico, né quello civile, ma quello dettato dalla Parola. Anche l’avvicendamento dei parroci si compirà in vista dell’Avvento, che coincide peraltro con la fine dell’Anno della Misericordia.

Imparare a credere

«La fede nasce dall’ascolto», dice l’apostolo Paolo. Da qui non si scappa. La Parola e, grazie a essa, i «santi segni» che sono i 7 sacramenti sono l’alfabeto che dobbiamo insieme re-imparare. Superando un generico senso di socializzazione religiosa che ci lascia come ci trova. Favorire un contatto diretto con la Parola aiuta a far crescere un rapporto consapevole e responsabile con Dio e con gli altri, fuori dal quale si rischia di cadere solo nella routine e nella superstizione. «Il credente o sarà un mistico o non sarà», ammoniva il teologo Rahner. Ciò vorrà dire che fuori da questo contatto quotidiano, che non è solo ascolto, ma messa in pratica, non si dà un’esperienza convincente della fede.

La testimonianza del credente non passa solo dalla pratica religiosa, ma anche, in ultima analisi, dalla sua partecipazione al bene di tutti. San Francesco ci invita a evangelizzare tutti. Se necessario, «anche con la parola». Vuol dire che il primo segno della nostra fede sono le opere. L’eloquenza della vita è la sola strada praticabile ai nostri giorni. O forse è sempre stato così. Visto che sin dagli Atti degli Apostoli si decide di chiamare la fede cristiana come una ‘via’, a riprova del fatto che è un cammino che si apre solo camminando e non semplicemente declamandolo.

La comunicazione tra noi è essenziale. Non che basti comunicare per produrre il miracolo della comunione. Di sicuro, però, la comunicazione ne è un presupposto. Comunicare non è, beninteso, fare propaganda o peggio ancora pavoneggiarsi. Semplicemente è raccontarsi in tutte le forme e i linguaggi possibili. Oggi non si può prescindere dalla rete, perché così accade nella vita. E la fede, se è reale, non può disertare questo spazio, dove è possibile incontrare tutti. Il nuovo sito della diocesi è una possibilità. Il rilancio di «Frontiera» è un impegno di tutti.

Via Giulio Costanzi, 27, 02043 Contigliano RI, Italia