Talità kum

Bollettino 2021

Talità kum, fanciulla io ti dico, alzati!
Mc 5,41

Non sto cercando preghiera o pietà
non sono alla ricerca di una stampella
voglio soltanto qualcuno con cui parlare
e un po’ di quel tocco umano
solo un po’ di umanità.

Non c’è pietà nelle strade in questa città
non c’è manna che piove dal cielo
nessuno che trasformi questo sangue in vino
siamo solamente tu e io in questa notte.

Dimmi, in un mondo senza pietà
pensi che sia troppo quello che chiedo?
Non puoi eliminare il rischio e il dolore
senza perdere l’amore che rimane.

Bruce Springsteen, Human Touch

Abbiamo bisogno di rialzarci. Di ricominciare. Di tornare a respirare. Le parole del Maestro, nel loro inconfondibile sapore aramaico, fotografano alla perfezione il tempo che viviamo. Gesù si rivolge ad una ragazza che ha 12 anni. Dovremmo provare a fare di questo energico appello non solo l’invito ad un risveglio individuale, ma anche una scossa capace di coinvolgere una intera comunità. È questo, infatti, il tempo di rialzarsi, di ricominciare; è questo il tempo di un nuovo inizio che non può essere semplicemente la ripresa di quello che abbiamo lasciato alle nostre spalle. Il Covid ci ha insegnato che il nostro modo di concepire la vita deve essere profondamente rivisitato perché “come era prima” non è affatto estraneo a quello che ci è accaduto. E ora siamo in grado di com-prendere che solo una diversa qualità della relazione fa uscire dall’isolamento in cui siamo sprofondati. Talità kum, infatti, è il contrario della melancon(o)ia ed esprime il senso della cura: essa invita alla vita perché c’è ancora vita, perché non tutto è morte, perché la prova che Dio c’è è che… siamo “programmati” ogni mattino per ricominciare daccapo. A tal proposito, ci sono tre particolari del testo marciano che danno a pensare e che aiutano a descrivere il tempo che ci attende e che vivremo insieme.

“La figlioletta di Giairo”, cioè della paternità

Non si dice come si chiamasse, ma la si presenta solo come la “figlioletta”, unica, di un uomo importante. Insomma, tutto il suo orgoglio! Forse quella ragazza può aver subito il peso delle troppe attese e premure che quel padre nutriva nei suoi confronti? Di sicuro il suo grave stato di salute spinge a ricercarne le cause all’interno del suo habitat familiare. Di qui l’esigenza di interrogarci noi tutti, laici e pastori, sul legame tra le diverse generazioni perché la vita, come del resto la fede, si trasmette grazie ad esse e non fuori di esse. Questo oggi significa una riscoperta della paternità, in assenza della quale avanza una generazione di eterni “Peter Pan”, che dei figli più che la cura rappresentano il problema, quando, non addirittura, il dramma.
Senza un “cuore di padre” è difficile affrontare questo tempo orfano di vita, di legami, di speranza. Il padre che ci serve, però, non è un “super-eroe”, né un essere privo di difetti. Non può essere neanche immune dal peccato. Ci serve un padre che sia capace di porre dei limiti, a partire dal proprio limite di “guaritore ferito” (Newman). Il padre che ci serve è silenzioso, ma presente; discreto, ma pervasivo. È un padre che attende, abbraccia, dimentica, che sa affrontare il conflitto senza crearlo ad arte, sa attraversarlo senza incentivarlo. Ci serve un padre che sia testimone dell’interiorità e insieme compassionevole, cioè uno che mette a disposizione quello che ha “visto” e “toccato”, con vicinanza e distanza, al tempo stesso. Ci serve un padre autorevole e non autoritario, la cui autorità deve essere attendibile e non tossica, cioè capace col tempo di “imparare” dagli altri e non di “incorporare” a sé; di lasciar andare e non di trattenere. L’immagine di san Giuseppe, sottratto a certe derive agiografiche, rappresenta secondo l’intuizione di papa Francesco (cfr. Lettera Apostolica, Patris corde) l’indicazione di una figura adulta che si sente amato, che è tenero senza diventare… “piacione”, che accetta la realtà e non fugge da essa, che accoglie anche quando non capisce, che ha coraggio creativo e non paura seriale, che lavora senza sottrarsi alla fatica, che sta nell’ombra, ma non manca mai. Se della crisi del figlio l’adulto vuol essere la soluzione e non la causa ci sono tre cose da non dimenticare. Anzitutto: prima del fare viene ciò che siamo, cioè padri e madri e non pari. Secondo: se non attiviamo relazioni sane con tutti rischiamo di introdurre rapporti malati, tossici, controproducenti. Terzo: si è generativi quando diventiamo in–utili, quando scompariamo, continuando ad influire interiormente. Si ricomincia, dunque, con il senso della cura, della genitorialità, della fiducia. Non ci sono altre strade da percorrere insieme.

“La prese per mano”, cioè del con-tatto

Il Maestro, saputo della morte della fanciulla, si dirige verso la casa del capo della sinagoga. Con lui ci sono anche Pietro, Giacomo e Giovanni. Quando arriva intorno a sé ci sono solo grida e lamentazioni. Ma Gesù non si lascia condizionare dall’atmosfera cupa e rassegnata. Sorvola, perfino, sull’ironia e sul disprezzo che lo circondano e tira diritto verso la stanza della figlia. Ha cura prima di allontanare tutti quelli che sono ad affollare la casa, ad eccezione del padre e della madre. Poi si avvicina e prende per mano la ragazza immobile ed esangue. E così il miracolo accade. Che strano! L’arto, che non sa trattenere dentro di sé neppure l’acqua, è il segno di ciò che ci trattiene e di ciò che ci plasma a nuova vita. Così Gesù stesso afferma la fede nella resurrezione.
Non solo. Gesù infrange la legge di purità che non permetteva di toccare la morte, ma è proprio questa relazione che si instaura a capovolgere la morte in vita. Occorre, dunque, toccare per sanare. Ciò che non è toccato non può essere salvato. Perché toccare è essere toccati al tempo stesso. Non si può toccare l’altro senza riverberarne qualcosa. Ciò significa che è meglio il con-tatto coi giovani che non il giudizio su di essi; è preferibile stare vicino agli anziani piuttosto che discutere di allungamento della vecchiaia; è più importante coinvolgersi personalmente che starsene a debita distanza. Il con-tatto, insomma, dimostra che esserci viene prima di qualsiasi fare. Che cosa rende una parrocchia compagna di viaggio se non l’essere “una casa tra le case”, un gruppo di persone su cui poter contare, una esperienza educativa che non abbandona mai? Ricordate il terremoto del 2016? Chi ha seminato fiducia, suscitato speranza, contagiato entusiasmo? Chi ha toccato con mano quel disastro e si è fatto vicino. E chi ha fatto la differenza durante il Covid? Tutti quelli che si sono fatti accanto e hanno avuto il coraggio di toccarci, pur con le doverose precauzioni. La Chiesa può annunciare il Vangelo solo se prima tocca con mano il mondo, creando così lo spazio di una vera fraternità che è la faccia visibile dell’amore invisibile di Dio. Come documenta con efficacia la Omnes fratres (2020) e ancor prima la Laudato sì (2015) “ tutto è connesso” e noi siamo interdipendenti.

“Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare”, cioè dei piccoli passi. Subito.

Gesù è terapeuticamente efficace. E la ragazza si mette in piedi e comincia a camminare. Perché la fede non è mai una conoscenza fine a sé stessa, ma è sempre una energia vitale che rimette in movimento e fa stare diritti sulle proprie gambe. Quello che vale per la fanciulla vale anche per la Chiesa. Essa cresce passo dopo passo quando si allontana dalla stagnazione e ritrova la gioia di sentirsi in movimento. A questo punta il “Cammino sinodale” (2021–2025), che le chiese che sono in Italia hanno avviato su ispirazione di papa Francesco. Vorrei elencare una serie di 12 “piccoli passi” che ogni comunità parrocchiale può fare. Subito.

1. “Sognare la parrocchia insieme”.

Sognare a occhi aperti una parrocchia diversa è possibile, ma occorre farlo insieme. Altrimenti si cade negli incubi o nelle allucinazioni. Ogni comunità può – come dopo l’Incontro pastorale 2021 – promuovere un’Assemblea e chiedersi: come essere e cosa fare per incontrare Gesù? Questa attitudine all’ascolto reciproco – all’inizio e alla fine di un anno liturgico-pastorale – deve diventare uno stile, anzi, un metodo di lavoro. Così si impara che la parrocchia è un Noi e non l’io del parroco o quello di qualcun altro, a lato. Le iniziative proposte dai vari uffici pastorali (cfr. Calendario liturgico–pastorale cartaceo) servono ad incoraggiare e a formare quanti auspicano una parrocchia più partecipata ed inclusiva.

2. Ascoltate! Ospitalità e invenzione per trasformare la Chiesa.

Ascoltare è l’atteggiamento previo per essere ospitali verso tutti e per inventare nuove forme di relazione. Oggi, infatti “la crisi non è del credere, ma del credere insieme” (P. Michel). Essere in ascolto rende ospitali e capaci di non parlarsi addosso. A tal proposito, i media o i linguaggi della diocesi (Frontiera, il sito www.chiesadirieti.it e i suoi innumerevoli collegamenti, i social) sono forme per essere a contatto con la vita della gente che è appesa ad un telefonino sempre a portata di mano. Il Covid ha diradato la comunicazione “a tu per tu” che resta peraltro insuperabile, ma ha pure inaugurato un dialogo (videoconferenze e call di vario genere, meditazioni online) senza tempo e senza spazio che può fluidificare. Anche una parrocchia può arrivare dappertutto e in tempo reale se c’è gente, specialmente giovani, che ci mettono la testa e il cuore.

3. “Chiese aperte e sagrati verdi”

Ci sono talora quasi più chiese che cristiani in certi borghi, ormai disabitati. Ma le chiese, specie quelle antiche, hanno un fascino che interroga tutti anche i più distratti, a condizione che restino aperte. Tenere aperto è più bello e più difficile. Tenere chiuso è più brutto e più facile. Una cosa è certa: i grandi vuoti delle chiese antiche hanno il potere di concederci “un indulto, una sospensione, un miracoloso arresto” (C. Brandi). Di risvegliare ciò che di umano resiste in noi. Di farci tornare a camminare “a passo d’uomo”. Senza dire del tempo che acquista una nuova profondità. Trovare aperta una chiesa è una ventata di Spirito che vale molto anche sul piano simbolico. Una comunità aperta si vede, anzitutto, dalla porta della sua chiesa. E anche dallo spazio che la circonda. In genere il sagrato è uno spazio di rispetto che mette in comunicazione dentro e fuori. E’ questa soglia che va curata e possibilmente allestita – come già accade in diverse realtà – con una particolare attenzione al verde e alle piante, così da creare un ambiente più ricco e sostenibile. La cura del giardino antistante la chiesa è un piccolo segno. L’ecologia non è soltanto opera di giardinaggio. Ma il verde e i colori aiutano ad entrare in familiarità con la biodiversità che è un tocco originale della creazione.

4. Iniziare alla vita e non solo ai sacramenti

Se i sacramenti sono i “segni” dell’incontro con Dio, essi sono pure collocati negli snodi (infanzia, adolescenza, giovinezza, età adulta e anziana) dell’esistenza. Dietro di essi si nasconde lo specifico della parrocchia che è posta come “segno” della presenza di Dio e dell’unione tra gli uomini. Per questo la pratica sacramentale è l’azione privilegiata di una parrocchia, purché alla fine tutto sia ricondotto alla vita e non soltanto ad un rito. Bisognerebbe chiedersi non soltanto quanti tornano dopo la prima comunione e la cresima, ma quanti e quanto hanno incontrato Gesù Cristo nella loro vita? Si comprende che la questione non è abolire padrini e madrine, o la festa di prima comunione o cresima, ma sviluppare un’azione educativa che faccia dei sacramenti l’occasione di un incontro che tracima nell’esistenza. Per questo oltre a rimandare al Sinodo diocesano Reatino del 2005 (nn.55–57) per tutte le scelte e le indicazioni che attendono di essere osservate e rispettate, mi preme dire sommessamente una cosa. La scelta di un percorso sacramentale in una parrocchia piuttosto che in un’altra non è solo legato alla sua comodità, ma alla sua qualità.

5. La musica e il canto valgono molto più di tante parole

La partecipazione non è solo questione di numeri ma anche di coinvolgimento. Se si entra in certe liturgie si ha immediatamente il senso della “bolla” in cui ciascuno vive, a prescindere dal distanziamento imposto dal Covid. A cantare, ad esempio, a parte il coretto che in genere non manca mai, sembra che non ci sia quasi nessuno. E invece la musica e il canto hanno una capacità di fascinazione e di interrogazione che non mille discorsi. Di qui una pressante richiesta: una messa senza canti non è possibile, soprattutto alla domenica! Ci sono tante ragioni per cui al giorno del Signore molti preferiscono disertare l’assemblea. Ma di sicuro la mancanza del senso della festa che si esprime nel canto è la prima. E non è detto che si debba avere a disposizione un coro polifonico. Basta anche uno strumento e qualche voce ben armonizzata. Una Messa ben celebrata richiede tempo nella preparazione e non si dà senza un piccolo gruppo liturgico. Se questa cura manca ci si accorge subito.

6. Un giorno per la Parola

Il Covid ci ha impedito di portare avanti la bella sequenza della Giornata della Parola che avevamo avviato nel contesto dell’ottobre francescano, distribuendo migliaia di copie dei vangeli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni. Più di recente, papa Francesco (cfr. Aperuit illis) ha istituito la Domenica della Parola di Dio alla terza domenica del Tempo Ordinario, precisando che il giorno dedicato alla Bibbia vuole essere non «una volta all’anno», ma «una volta per tutto l’anno». Una parrocchia che dedica un giorno alla settimana all’ascolto della Parola, non necessariamente in sostituzione dell’Eucaristia, offre un servizio prezioso che nutre la fede. La lectio divina resta comunque la si proponga una forma di contatto con Dio di insuperabile efficacia, cui introdurre tutti: adolescenti e adulti in primis.

7. Accoliti e accolite, lettrici e lettori

Papa Francesco con il motu proprio Spiritus Domini ha riconosciuto la figura femminile dell’accolito e del lettore. Nella pratica la presenza delle chierichette e delle lettrici era già ampiamente consolidata. Ora questa novità normativa può diventare l’occasione anche nelle nostre piccole realtà per ritrovare una ministerialità più diffusa, senza clericalizzare i laici. Così come l’altro motu proprio Antiquum ministerium conferisce al ruolo del catechista, donna o uomo che sia, un mandato e una competenza che arricchiscono la Chiesa con presenze laicali che portano la Chiesa nel mondo oltre che il mondo nella Chiesa.

8. Gli adolescenti come terra promessa

L’adolescenza è una terra abbandonata a sé stessa in una stagione in cui si fatica a capire chi si è e cosa si vuol diventare. I fenomeni di bullismo e di disagio alimentare (anoressia o bulimia) attestano una fragilità che espone in questa stagione a rischi difficilmente esagerabili. Siamo di fronte ad una crisi che non è solo fisica e psicologica, ma anche spirituale. Si è infatti nel tempo delle grandi domande spesso inevase e sottovalutate dal mondo degli adulti. Occorre porsi dentro quest’atmosfera con un approccio propositivo che faccia leva sui linguaggi tipici di questa generazione (musica, sport, teatro, volontariato) per intercettare i disagi e ancor prima orientare i desideri autentici di vita. A questo proposito la parrocchia dovrebbe chiedersi che fare con gli adolescenti dopo i sacramenti dell’iniziazione cristiana, perché questa terra va abitata e non abbandonata a sé stessa.

9. Risus paschalis

Letizia etimologicamente viene da… letame. In effetti, la gioia è quella cosa che feconda ogni nostra iniziativa ecclesiale e non può mai mancare. Certo nessuno sottovaluta le sfide presenti e le difficoltà che si moltiplicano, ma non saranno certo i musi lunghi e le facce corrucciate a diffondere il vangelo. Il segno delle chiese semivuote è anche il segno di un cristianesimo che si vorrebbe diverso, altro. Un cristianesimo sorridente e non ridanciano che nasce dall’incontro con il Risorto. Evangelii gaudium, suggerisce che la gioia è la cifra segreta del credente. E le parrocchie, per quanto scalcinate, possono esprimere una sensibilità alternativa ad un mondo frettoloso ed agitato, offrendo momenti e spazi di incontro disteso ed affettivamente significativo.

10. Responsabili di ambiti

Per uscire dalla logica del parroco come equivalente della parrocchia, è opportuno che emergano figure laicali che si impegnano in prima persona in alcuni ambiti essenziali. Anche le piccole comunità – che da noi sono la gran parte – stanno in piedi e sono vive se ci sono dei responsabili di ambiti (catechesi, liturgia, carità, famiglia, giovani, anziani, amministrazione). I responsabili di settore cercano insieme di sostenere l’organizzazione della parrocchia, quando il parroco è residente, ancor più quando è itinerante. E, se necessario, mettono a disposizione dei poveri e di iniziative comunitarie gli spazi parrocchiali liberi. Così questi non deperiscono e corrispondono meglio alla vocazione cristiana del condividere pesi e risorse.

11. La fede si trasforma in cultura

Una parrocchia non vive solo all’interno delle sue mura, ma si esprime in tante forme all’esterno. Dalla benedizione alle famiglie alle feste patronali ci sono innumerevoli attività che travalicano lo spazio sacro e fermentano il territorio circostante. Questa attitudine della fede a trasformarsi in cultura varia nel tempo, ma resta immutata nella sostanza e va accompagnata con intelligenza e discernimento. Solo un esempio a carattere diocesano che ci riguarda da vicino. “La valle del primo presepe” non è solo un modo per dire che Gesù non è… Babbo Natale (sic!), ma anche una proposta spirituale e culturale per rendere comprensibili le radici, cui siamo tutti debitori e di cui la storia e l’arte del nostro territorio è testimone. Per concludere una parola sulla religiosità popolare che si esprime nelle varie confraternite. È una possibilità di evangelizzazione, a condizione che con pazienza e convinzione se ne definiscano le ragioni e le finalità.

12. La fraternità come criterio per ripensare la società

La fraternità è il criterio per ripensare la società e la chiesa. Le parrocchie diventano così spazi di vera fraternità, in cui spicca una privilegiata attenzione ai più poveri e ai più fragili. Da qui nasce e si sviluppa l’ampia gamma delle opere che fanno riferimento alla Caritas e ai vari uffici pastorali della salute, della pastorale sociale e della famiglia (case di riposo, centro diocesano della salute, consultorio familiare, centro di ascolto, Sprar, Recuperandia, Samaritano, Case di accoglienza per minori, Centro l’Ottavo giorno a Colle San Mauro, Comunità in dialogo a Greccio,). La fraternità crea pure le condizioni per un dialogo tra credenti in una società, ormai multiculturale e multiconfessionale. Anche le nostre realtà parrocchiali in tempi di immigrazione devono poter misurarsi con questa prospettiva, che definisce la questione non in termini di ordine pubblico, ma di politica dell’integrazione.
12 piccoli passi. Il numero 12 custodisce un significato di pienezza che incoraggia, esattamente come la ragazza che ha ripreso a camminare. Quando si cammina è sempre un buon segno perché la vita riprende, ricomincia, risale, grazie a Dio. Buon cammino a tutte e a tutti!

Rieti, 21 novembre 2021
Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo

Rieti
21-11-2021