Evangelizzare

Discorso all'incontro del terzo giovedì del gennaio 2019
Bollettino 2019

Si intitola così semplicemente Evangelizzare un testo redatto da don Lorenzo Chiarinelli e pubblicato nel 1968. All’epoca la chiesa di Rieri superava i 120.000 abitanti ed aveva circa 125 presbiteri, per lo più reatini di origine. A distanza di cinquant’anni siamo sempre sull’evangelizzazione: solo che nel frattempo siamo diventati meno di 100.000 abitanti e abbiamo una settantina di preti, di cui più della metà oriundi e ultra-sessantenni. Con pazienza e determinazione riprendiamo ad evangelizzare, prendendo spunto da Evangelii Gaudium (2013) e da un documento della CEI sulla recezione del DB: Incontriamo Gesù (2014). Il Codice di diritto canonico (cann. 730 e 780) fa cenno ad un progetto diocesano di catechesi. Vi si precisa che i parroci sono tenuti ad armonizzare il loro percorso con tale programma diocesano (can. 225). Il Sinodo diocesano di Rieti ha un intero capitolo che definisce contenuti, modalità e forme dell’evangelizzazione.

La mia riflessione si articola in tre ambiti.

  1. Che cosa è cambiato?
  2. Come evangelizzare?
  3. Chi è l’evangelizzatore?

Da queste tre questioni si ricavano alcuni orientamenti o linee di impegno e concrete azioni che tutti sono chiamati ad armonizzare col proprio cammino pastorale.

1. Che cosa è cambiato?

Era già cambiato tanto alla fine degli anni ‘60. Ora davvero è cambiato tutto. Si intitola Il postmoderno spiegati ai cattolici e ai loro parroci l’ultima fatica di A. Matteo che induce a pensare, anzi obbliga a prendersi del tempo per pensare. Si parte dall’ovvio e cioè che “non c’è più religione” per dire che il mondo è diventato impermeabile alla fede che ormai considera superflua. Senza nostalgia e senza risentimento.

Non c’è più un pensiero, come fu il platonismo per il passato, che sorregga la ricerca religiosa verso un’altra dimensione accettata come pacifica ed, anzi, come il supporto invisibile a questa condizione terrena. Platone è andato in pensione.

Non solo il Paradiso può attendere e soprattutto venute meno le grandi narrazioni cessa anche il sacrificio. La vita non è fatta più di sacrifici. Tutt’al più è fatta di occasioni.

E, da ultimo, l’uomo da animale politico è diventato animale social. Manca completamente la dimensione comunitaria e prevale solo la curiosità di vedere come alla finestra, attraverso il display elettronico, che cosa accade. E da lì sputare sentenze, aggredire, maledire, imprecare.

Col risultato che il “noi” scompare e si impone un “io” sempre più animoso e tronfio, chiuso e rattristato.

Tutto questo che è successo non poteva non rifrangersi sull’enorme sforzo prodotto dalla chiesa nel suo tentativo di evangelizzare oggi. Le fatiche più ricorrenti sono elencate in IG al numero 14:

L’esigua proposta di percorsi di primo annuncio o di risveglio della fede; la difficoltà di attivare percorsi di vera catechesi con e per gli adulti; la tentazione di risolvere la catechesi dei piccoli prevalentemente attraverso incontri che utilizzano una metodologia ispirata a un modello scolastico (la catechesi è si, anche scuola, ma nel senso più bello e più alto del termine); l’annacquamento dell’esperienza catechistica in banali animazioni di gruppo, senza sapere così rintracciare l’esperienza – la vita in Cristo – attraverso le esperienze; la conoscenza solo superficiale e talvolta strumentale, spesso, anche negli stessi operatori pastorali, della Scrittura, della dottrina Cattolica e della vita ecclesiale; l’assenza o comunque l’ampia distanza dei percorsi di catechesi dalla testimonianza di carità; la carenza di progetti catechistici locali e di cammini formativi per gli operatori della catechesi; soprattutto, la delega ai catechisti – e spesso solo a loro – di quella dimensione educativa che può operare solo una comunità educante nel suo insieme, che professa, celebra e vive la fede.

2. Come evangelizzare?

Dentro questa disamina delle fatiche ci sono dentro le scelte, gli strumenti e le proposte che dobbiamo attivare per non rassegnarci.

Il punto debole della proposta è aver dimenticato che la nostra vita pastorale manca del tassello decisivo che è una comunità di adulti, la cui condizione secolare abbia assunto la forma del Vangelo. La catechesi, per quanto rivista attraverso gli otto testi della CEI, mantiene un format sostanzialmente scolastico. Il lavoro compiuto dal movimento catechistico di una riformulazione biblica e narrativa è stato formidabile, ma alla fine ci si è ricollocati entro una chiave nuovamente dottrinale. Cosi è emerso lo stesso risentimento proiettato sulla riforma conciliare, in cui alla Bibbia si è lentamente sostituito una serie di pratiche di devozione. A ciò si aggiunga che venendo meno la cornice protettiva di un essenziale ‘catecumenato sociale’ la catechesi si è ritrovata nuda. E si è caricata del processo iniziatico sempre più in crisi nella pratiche della Chiesa, ma anche nello scenario più complessivo. La catechesi si è trovata a dover gestire i processi di ingresso nella vita cristiana destinata ai piccoli. Gli unici peraltro ancora realmente attivi nella vita cristiana. Quelli su cui fatalmente si scarica l’ansia da prestazione dell’operatore pastorale medio.

Ciò nonostante il credito che ancora una parte del mondo adulto riserva alla Chiesa affidandole i loro figli non va tradito. Va anzi valorizzato ben oltre le loro stesse intenzioni, senza colpevolizzare le famiglie, ma cercando di coinvolgerle.

Per far questo ci vuole una Chiesa capace di ascoltare e in cui si è capaci di ascoltarsi. Questa poi è la condizione per farsi ascoltare.

  • Una Chiesa capace di ascoltare è quella che riesce ad interpretare l’umanità. L’ascolto va compreso a fondo, con rispettosa attitudine conoscitiva, non con sbrigative etichette moralistiche, con reale attrezzatura intellettuale, con autentiche capacità di lettura, con reale disposizione a intuire le istanze di fondo dei cambiamenti, ma anche solo a prendere atto di visioni e costumi impossibili da ignorare, anche quando appaiono provocatori e ambivalenti. Una Chiesa che ascolta non significa una Chiesa in soggezione. Ma soltanto lo stare a fianco di tutti con una proposta che vuol essere per tutti anche se non sarà di tutti. Una Chiesa che si ascolta è quella in cui ci si da’ il tempo per ragionare senza polemiche e per trovare qualche strada da imboccare insieme. Certo i consigli pastorali e le altre forme di partecipazione languono, ma questo è il problema. Si tratta di tenere insieme gli affetti della devozione e insieme curare l’intelligenza della fede, laddove la parola popolare non significa ruspante, ma piuttosto comune. E così si arriva ad una Chiesa che si fa ascoltare.
  • Dobbiamo ritrovare lo stile di Gesù che è itinerante, relazionale, conviviale, a differenza del nostro stile che è stanziale, cioè ripetitivo, impersonale e piuttosto asettico. Il primato della relazione che viene prima del contenuto e costituisce la premessa di qualsiasi incontro con Gesù, deve essere rimesso al centro. Come annota EG 142: «Un dialogo è molto di più che la comunicazione di una verità. Si realizza per il piacere di parlare e per il bene concreto che si comunica tra coloro che si vogliono bene per mezzo delle parole. È un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si donano nel dialogo».
  • Dobbiamo, quindi, inserire la catechesi tra il primo annuncio e la vita cristiana matura. E non riferendo questa realtà ai piccoli, ma anzitutto agli adulti. L’iniziazione cristiana ha senso solo nella tensione di un cammino che riguarda tutta la comunità cristiana verso una fede adulta, una speranza gioiosa, una carità operosa. Se questo è vero dobbiamo far riferimento a strumenti diversi a seconda del primo annuncio, della catechesi e della vita cristiana. Ad esempio, per quanto riguarda il primo annuncio la pietà popolare, i pellegrinaggi, il patrimonio storico-artistico possono essere delle occasioni preziose. Ma anche intercettare alcuni ambienti di vita come lo sport, la musica, il teatro, la scuola: sono tutte delle occasioni grazie alle quali stabilire un rapporto.
  • Occorre poi tener conto che prima viene la catechesi degli adulti e poi quella dei giovani e dei ragazzi. Quest’ultima si articola seguendo il catechismo della Cei in tre fasi:6-8;9-11;12-14, ma è di tutta evidenza che la fase 0-6 anni è decisiva in ordine alla relazione tra genitori e bambini. Questa è la stagione in cui si apprende la lingua materna della fede. Per questo ogni parrocchia deve porsi questa domanda: come accompagnare la coppia in questa delicata fase di trasmissione? Poi certamente esiste la dinamica dai 6 ai 14 anni dove si tratta di attivare una particolare relazione con le famiglie. Quindi, ci sono i giovani cui va proposto un cammino che sia giocato su tutte le dimensioni della fede: ascolto e preghiera, celebrazione e festa, carità e testimonianza della vita. Il Meeting dei giovani è costruito attorno a questi tre ingredienti: ascolto e preghiera, festa e celebrazione, progetti e impegno di vita.

3. Chi sono gli evangelizzatori?

Il Documento Base aveva una piccola nota che è forse il lascito più interessante. Diceva più o meno così: «Prima dei catechismi vengono i catechisti, prima dei catechisti viene la comunità cristiana». Non si poteva dire meglio e più concisamente rispetto al fatto che i soggetti dell’evangelizzazione vengono prima delle analisi, delle strategie, dei progetti.

Si è compreso che si tratta, in primo luogo, di adulti, di donne e uomini, anzi di famiglie che intendono iniziare, accompagnare e sostenere i più piccoli. Così soltanto si realizza una tradizione, cioè una trasmissione vitale di ciò che è importante da lasciare a chi ci seguirà. Ma proprio questo è il problema della nostra generazione che si è come bloccata sul presente e manca questa apertura al futuro anche perché tutti ci si sente giovani a vita e la giovinezza viene prima dei giovani.

La seconda qualità dell’evangelizzatore è il suo essere un catecumeno che diventa discepolo, quindi in permanente stato di formazione. Di qui la necessità per i catechisti di ritrovarsi a curare la propria identità. Le qualità sono presto dette: sapere, saper fare, saper stare con. Bisogna passare dalla predilezione per i piccoli all’interesse per gli adulti. La pastorale pediatrica o geriatrica deve cedere il passo ad un interesse speciale per gli adulti che vanno intercettati al loro livello con proposte che siano capaci di orientare la loro ricerca religiosa. Ad esempio, le dieci parole sono un format che in alcune realtà attira a se’ nella riscoperta della fede. Occorre trovare proposte che siano capaci di parlare agli adulti. E la strada non può che essere quella di intercettare le famiglie perché attraverso di loro passa il Vangelo.

Infine, l’evangelizzatore è più che un maestro a scuola. È piuttosto un maestro di vita che introduce nei vari ambiti esistenziali con l’autorevolezza di chi non si limita a stare a guardare, ma stimola e provoca. Non ci si forma da soli, ma sempre nel confronto con un educatore. Il punto è che “i giovani si trovano spesso a confronto con figure adulte demotivate e poco autorevoli, incapaci di testimoniare ragioni di vita che suscitino amore dedizione”. In realtà, solo l’incontro con il ‘tu’ e il ‘noi’ apre l’io a se stesso, per cui la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione. Solo attraverso adulti autorevoli sarà possibile condurre a perfezione quella iniziazione cristiana che ha nei sacramenti degli snodi significativi nella misura in cui riesce a far emergere i passaggi vitali dalla fanciullezza all’adolescenza, dalla giovinezza alla fase adulta. Dentro queste tre domande e le relative risposte si annidano le scelte irrinunciabili per ogni comunità cristiana piccola o grande. Si tratta di camminare insieme adulti e giovani, secondo le tappe che aprono a tutta l’esperienza cristiana, lasciandosi trascinare non ai margini, ma nel cuore della vita. Dunque, tre scelte:

  • Una comunità di adulti laici, cioè una comunità educante.
  • Una evangelizzazione che nasce dall’ascolto dei bisogni e degli interessi e conduce diritto all’incontro personale e comunitario con Gesù Cristo.
  • Una esperienza che non si limita a sapere, diventa saper fare e saper stare con.

4. La parola del card. Bergoglio

A mò di conclusione resta insuperato, per brevità ed intensità, quel che il card. Bergoglio ebbe a dire durante la penultima delle Congregazioni generali prima del Conclave. Dopo queste parole si rafforzò l’intenzione di eleggerlo papa. Siamo al 9 marzo che è il sabato prima dell’inizio del Conclave, fissato per il 12 marzo. Il futuro papa parlò a braccio, salvo poi su richiesta del card. Ortega mettere per iscritto quel che aveva detto.

Evangelizzare le periferie

Si è fatto riferimento all’evangelizzazione. È la ragion d’essere della Chiesa. «La dolce e confortante gioia di evangelizzare» (Paolo VI). È lo stesso Gesù Cristo che, da dentro, ci spinge.

Evangelizzare implica zelo apostolico. Evangelizzare presuppone nella Chiesa la “parresìa” di uscire da se stessa. La Chiesa è chiamata a uscire da se stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del colore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria.

Quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare diviene autoreferenziale e allora si ammala (si pensi alla donna curva su se stessa del Vangelo). I mali che, nel trascorrere del tempo, affliggono le istituzioni ecclesiastiche hanno una radice nell’autoreferenzialità, in una sorta di narcisismo teologico. Nell’Apocalisse, Gesù dice che Lui sta sulla soglia e chiama. Evidentemente il testo si riferisce al fatto che Lui sta fuori dalla porta e bussa per entrare… Però a volte penso che Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Gesù Cristo dentro di sé e non lo lascia uscire.

La Chiesa, quando è autoreferenziale, senza rendersene conto, crede di avere luce propria; smette di essere il mysterium lunae e dà luogo a quel male così grave che è la mondanità spirituale (secondo De Lubac, il male peggiore in cui può incorrere la Chiesa): quel vivere per darsi gloria gli uni con gli altri. Semplificando, ci sono due immagini di Chiesa: la Chiesa evangelizzatrice che esce da se stessa; quella del Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans (la Chiesa che religiosamente ascolta e fedelmente proclama la Paola di Dio, ndr), o la Chiesa mondana che vive in sé, da sé, per sé. Questo deve illuminare i possibili cambiamenti e riforme da realizzare la salvezza delle anime.

Pensando al prossimo Papa: un uomo che, attraverso la contemplazione di Gesù Cristo e l’adorazione di Gesù Cristo, aiuti la Chiesa a uscire da se stessa verso le periferie esistenziali, che la aiuti a essere la madre feconda che vive “della dolce e confortante gioia dell’evangelizzare”.

Rieti
20-02-2019