Via Crucis con il vescovo ad Accumoli: «costruire meglio non solo le case antisismiche, ma mettere al sicuro la nostra vita»

«A fronte dei nostri dolori ciò che conta è non pensare alle nostre angosce, ma lasciarsi trascinare da Cristo, condividendo le ansie e le tristezze del mondo. Così è la sofferenza dell’altro e non la nostra a diventare misura di Dio e di essere uomo».

Lo ha detto mons Domenico Pompili, vescovo di Rieti, chiudendo oggi pomeriggio la Via Crucis che si è svolta ad Accumoli, tra le ‘casette’ edificate dopo il sisma del 24 agosto 2016 che ha praticamente distrutto l’intero centro abitato. Parlando della Croce e della Passione, mons. Pompili ha affermato che «Gesù non è un superman con cui faremmo fatica ad identificarci, piuttosto un uomo che sovrasta gli ometti che lo circondano (Pilato, Caifa, Pietro, le guardie…) e capovolge la situazione. Così sulla Croce Gesù dice ‘tutto è compiuto’ e non tutto è finito. Riscatta così l’assurdità di quella fine cruenta, assegnandole un senso che va oltre la nostra comprensione umana. Grazie alla croce di Gesù nessun uomo è più solo, nessuna sofferenza inutile, nessun sospiro dimenticato, nessuna lacrima versata invano, perché Dio porta tutto a compimento con l’amore».

Una Via Crucis tra le casette Sae è cominciata con queste parole, insieme a un centinaio di fedeli: «vogliamo pensare alla nostra ricostruzione, perché pure noi nel passato con ammirazione guardavamo le opere delle nostre mani, la bellezza dei nostri borghi. Cercavamo di trascorrere un po’ di tempo nei nostri paesi per ammirare la bellezza delle chiese, i palazzi, le vie, goderci la tranquillità… Tuttavia il male distruttivo, causato dal terremoto, si è infiltrato così profondamente in questa nostra realtà che praticamente ha buttato giù tutto. Adesso bisogna pensare alla vera e profonda ricostruzione».

Dietro la croce gli abitanti di Accumoli, guidati dal vescovo Domenico, hanno chiesto che «questa ricostruzione non sia una cosa sbrigativa, malpensata, senza fondamenta, senza abbracciare tutte le realtà della vita dell’uomo. Deve essere ben pensata, ben programmata. E quindi non soltanto scritta sul tavolino dei nostri uffici, ma anche elaborata in preghiera per coinvolgere in questa causa Dio, l’Artefice delle nostre vite».

Durante la prima Stazione i fedeli hanno pregato perché «non si ripeta l’errore di eliminare Dio dalla storia dell’uomo» come quando venne condannato a morte .

«Non vogliamo nessuna ricostruzione eliminando Te dalla nostra vita. Sarebbe una ricostruzione parziale, superficiale, senza toccare tutti gli aspetti della vita umana. L’uomo non è soltanto un pezzo di carne a cui dare da mangiare, coprirlo e metterlo in una casetta, ma è anche una realtà spirituale che ha bisogno di Te, o Signore, e non può eliminarti dalla propria vita se vuole funzionare bene».

La condanna a morte di Gesù equivale alla condanna a morte della “nostra terra” se si pensa alle «molte famiglie che non hanno più la casa dove tornare per trascorrere magari qualche giornata. I giovani del posto spesso non hanno il lavoro e sono condannati a guardare come lavorano gli altri. È brutto scoprirsi inutile, percepire che delle mie mani, del mio operato non ha bisogno nessuno. Tale situazione è un problema che fa morire questo territorio. Ma nonostante le difficoltà vogliamo guardare il futuro con la speranza. In apparenza anche Tu Gesù cammini verso la morte. In realtà verso la vita. È solo grazie a Te questo cammino doloroso della nostra vita attuale, non è un cammino verso la morte di questa terra, ma può essere un cammino verso la vita, la ricostruzione, la risurrezione».

«L’individualismo – sintomo del tessuto sociale che si è sgretolato dopo il terremoto – è una pericolosa caduta nel cammino verso la ricostruzione».

Da qui la necessità di «coltivare le nostre relazioni in modo sano, rispettoso ed edificante».

La preghiera della Via Crucis è stata un invito a «scoprire il lato positivo dell’altro e non considerarlo un problema, un ostacolo, un nemico – ma piuttosto un’opportunità, un aiuto, un benefattore, anche quando in apparenza è lui ad aver bisogno del nostro aiuto».

Durante le Stazioni i partecipanti hanno rimarcato l’importanza del perdono «nel cammino della nostra ricostruzione. Ci siamo detti un po’ troppo. Ci siamo fatti, o non fatti, un po’ troppo. Adesso non si può scavare nel fango del peccato, ma semplicemente si deve gettare una pietra sopra e dire: Io ti perdono, perché anch’io voglio essere perdonato».

Altra ‘caduta’ in questo “cammino di vera e profonda ricostruzione” è rappresentata dall’invidia: «l’invidia di tutto, perché a qualcuno è rimasto un pezzo di muro in più. L’invidia, perché qualcuno lavora. L’invidia, perché ha ricevuto le scarpe di un’altra marca. L’invidia, perché la sua camicia ancora non si è strappata. L’invidia senza sapere neanche per quale motivo. L’invidia come se fosse uno stile di vita. L’invidia come un tumore. L’invidia come una edera che avvolge l’anima e non le permette di godersi la vita».

Tutto questo, è stato detto, è un grande «no all’attaccamento alle cose materiali».

«Tanti di noi hanno lasciato molte cose nelle case distrutte dal terremoto. Ma non siamo più poveri per questo. Possiamo essere più poveri, se amiamo di meno, se condividiamo di meno, se ci aiutiamo di meno. Ricco non è uno chi prende e prende e prende senza fermarsi mai. Ricco è uno che sa dare e vuole amare senza fermarsi mai».