«Un’opera che dice il cuore della nostra fede»: scoperto il restauro della grande Crocefissione in Sant’Agostino

Nel pomeriggio di domenica 31 marzo in tanti hanno voluto essere presenti nella chiesa di Sant’Agostino per ammirare il grande affresco della Crocefissione, attribuito a Liberato Di Benedetto. Il dipinto, strappato dalla sala del capitolo degli agostiniani e conservato nella basilica di piazza Mazzini, è stato infatti sapientemente restaurato e il parroco don Marco Tarquini ha scelto di presentare alla città l’intervento, eseguito da Martina Comis, con un convegno dedicato all’opera coordinato dalla professoressa Letizia Rosati. «È stato un lavoro faticoso – ha riconosciuto il sacerdote – che è stato portato avanti anche grazie al contributo della comunità parrocchiale». Un modo, ha spiegato don Marco, per «raccogliere l’eredità degli agostiniani», ma anche per proseguire nell’opera di valorizzazione della chiesa di Sant’Agostino iniziata negli anni ‘60 da mons Bruno Bandini, per poi proseguire a cura di mons Salvatore Nardantonio.

Tra difficoltà e soddisfazioni

Lo strato pittorico della Crocefissione si trovava in stato di grande precarietà a causa dell’età e della sua storia tormentata. Già al tempo del primitivo ritrovamento l’affresco si presentava in cattive condizioni, e «non c’è dubbio che il distacco, pur salvaguardandolo dalla perdita definitiva, ne ha sensibilmente alterato l’aspetto». Tante difficoltà dunque, ma anche molte soddisfazioni per la restauratrice, che ha illustrato le tecniche utilizzate attraverso la proiezione delle immagini che hanno messo a confronto l’aspetto dell’opera prima e dopo l’intervento. Il restauro dell’affresco, peraltro, non soltanto ha salvato un importate esempio dell’arte locale, ma ha portato alla luce dettagli prima invisibili e una vivacità cromatica inedita per quanti hanno posato lo sguardo sul dipinto in passato. Al punto da far prevedere nuovi studi e nuove ipotesi sull’opera e sul suo anonimo autore.

Un pittore misterioso

Come ricordato in convegno da Giuseppe Cassio, storico dell’arte della Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio per le province di Frosinone, Latina e Rieti, l’attribuzione a Liberato di Benedetto – pittore reatino documentato tra il 1432 e il 1465 – la dobbiamo a Cesare Verani, che erroneamente individuò l’iniziale del nome del pittore in un dettaglio del dipinto. Stabilire chi sia l’autore di un’opera tanto impegnativa in realtà richiede maggiore cautela, perché Liberato è «un artista ancora troppo misterioso» il cui catalogo «annovera solamente un’opera certa». Pure sulla datazione dell’affresco, suggerita dal Verani nel biennio 1430-1432, lo storico dell’arte ha qualche riserva. Il dipinto commissionato dagli agostiniani sembra debitore della pittura di Lorenzetti e, più in generale, «della tradizione tardo gotica umbro-toscana». Conoscenze che il Liberato non poteva aver acquisito prima di un probabile viaggio in Umbria negli anni Trenta. Per mantenere l’attribuzione occorrerebbe dunque spostare al decennio successivo la realizzazione della Crocefissione, oppure assecondare la proposta di altri studiosi. Non è infatti escluso che la parete dell’aula capitolare del convento reatino fosse stata dipinta alla fine del Trecento da «quel “maestro forestiero”, ipotizzato anche da Verani, intorno al quale si formò il giovane Liberato». Tutte ipotesi che potranno essere confermate o smentite «solo con gli sviluppi della ricerca sul pittore, nella speranza di trovare qualche altro documento pittorico utile a definire meglio il suo profilo artistico».

Un’opera che apre le porte della fede

Resta certo, invece, il valore spirituale dell’opera restaurata, sul quale si è soffermato il vescovo Domenico durante il momento di preghiera che ha preceduto il convegno. Dapprima rilevando che nella storia dell’arte «la crocefissione non è stata da subito la prima forma per rappresentare l’evento decisivo di Gesù Cristo». Infatti «i primi secoli non vedono alcuna rappresentazione della crocefissione, e dopo l’editto di Costantino ci sarà l’etimasia, cioè la croce come un trono gemmato, ma vuoto, in attesa del Cristo che torna glorioso». Nel tardo medioevo si arriverà a descrivere il Cristo glorioso sulla croce; da san Francesco in poi il Cristo doloroso della passione; in epoca rinascimentale il Cristo sulla croce diventerà l’immagine dell’uomo perfetto; nel ‘700 il Cristo verrà rappresentato a tinte fosche tra estasi e pianto; in epoca moderna nella crocefissione viene messo in evidenza soprattutto il dolore del mondo.

Ma «questo uomo giusto di nome Gesù, che ha vissuto facendo del bene ed è stato messo a morte per la complicità delle autorità religiose e politiche del suo tempo», cosa dice a noi oggi? «Guardando bene il crocifisso – ha spiegato mons Pompili – comprendiamo due cose: per un verso ci dice fino a che punto arriva la violenza dell’uomo, fino a che punto è possibile che il male prenda corpo e si diriga nei riguardi dell’innocente; per un altro verso ci dice anche fin dove arriva il bene, perché il crocefisso non muore imprecando, ne lanciandosi rabbiosamente contro chi lo sta suppliziando, ma con parole tenere d’amore».

E qui va cercata la ragione del restauro della grande opera nella basilica di Sant’Agostino: «come scriverà Paolo: “dove ha sovrabbondato il peccato, sovrabbonda la Grazia”. Questo è ciò che la fede ci suggerisce, questa è l’importanza di un’opera che ci fa concentrare lo sguardo su ciò che è veramente decisivo della nostra fede».