Un Natale speciale…

Per circa un mese quell’albero posto nell’angolo del salotto esercitava su di noi un’attrazione quasi magica.

Il profumo odoroso del pino riempiva la stanza. Sollecitando l’olfatto, quella fragranza nuova, inconsueta, aveva l’effetto irresistibile di convocarci alla sua presenza. Eravamo in casa quando, pochi giorni prima della festa dell’Immacolata, il garzone del vivaio aveva suonato al nostro campanello trascinandosi dietro un pino lungo e snello infagottato in un rete verde a maglie strette. Ce n’era voluto per metterlo in piedi. Scegliere l’angolo giusto, invasarlo in un capiente e pesante vaso di terracotta dandogli la sua naturale posizione verticale e facendo attenzione a non danneggiare il lampadario di murano che pendeva dal soffitto.

Sembrava che questa volta avessero preso in anticipo le misure. Issato in tutta la sua fierezza, quell’albero faceva bella mostra di sé, con la sua punta svettante di qualche centimetro più bassa della stanza. Altre volte era capitato che la punta, fiera e ribelle prima di piegare la testa umile e sottomessa sembrava volesse perforare il soffitto e fare capolino nell’appartamento dei signori del piano di sopra, ma poi, domata la sua fierezza, se ne stava offesa a muso lungo tenendo il broncio fin dopo l’Epifania.

Questa volta l’albero ci avrebbe sorriso e il puntale luminoso infilato sulla cima a mo’ di corona ci avrebbe fatto l’occhiolino per tutti i giorni avvenire. Sfoderato con cura dall’involucro che lo teneva a bada, aveva dispiegato i rami verdi e carnosi occupando con prepotenza buona parte della stanza. Le molteplici braccia che uscivano dal tronco, ineguali e biricchine sembravano già ben disposte a lasciarsi agghindare da ogni sorta di addobbi, come puledri rassegnati a lasciarsi infiocchettare per il giorno del palio.

Il rito dell’addobbo cominciava verso sera. Da una grande scatola tirata giù dalla soffitta cominciavano ad uscire fili di luci ad intermittenza, palle di vetro colorato, fiocchi di tulle, nastri dorati. A noi più piccoli altro non era permesso che il ruolo di assistenti, potevamo guardare col naso all’insù, e porgere ai grandi gli addobbi che sfilavamo dagli involucri che li avevano tenuti al riparo per circa un anno. Fili, palle, nastri e fiocchi sembrano ringraziarci di essere tirati fuori da scatole che di anno in anno apparivano sempre più sgualcite, sempre più sbilenche.

La sera dell’otto dicembre eravamo di nuovo tutti lì e papà dopo una serie di manovre da equilibrista, infilandosi sotto l’albero e facendo attenzione a non provocare la suscettibilità delle palle di vetro colorato, dava corrente e l’albero cominciava a palpitare. Noi si restava lì, quasi incantati cercando di decifrare l’alfabeto morse con il quale le luci intrecciate ai rami sembrano volerci comunicare chissà quale arcano messaggio. Il baluginìo creava l’incantesimo e noi tutti eravamo come ipnotizzati.

Più i giorni passavano, più le visite all’albero diventavano frequenti. Più si avvicinava il 25 dicembre più spesso si sostava ai piedi dell’albero che però di giorno in giorno cedeva il suo ruolo di protagonista per diventare solo una comparsa. Ora l’attenzione veniva rivolta ai regali che cominciavano a spuntare come funghi sotto i rami odorosi. Col passare del tempo il loro numero aumentava. Alcuni più grandi, altri più piccoli, ma tutti agghindati a festa. E noi che cercavamo di intuire cosa potessero contenere.

Forse perché quell’anno l’albero non aveva messo il broncio, ma sta di fatto che nel Natale del 1973, i regali sembrano moltiplicarsi a dismisura. Giorno dopo giorno ce n’era sembra qualcuno in più.

In casa ormai non si parlava d’altro se non dell’inusuale proliferazione dei pacchi. Tra i grandi, correva voce che molti di quei regali erano arrivati dall’Argentina. Li aveva mandati lo zio Vincenzo. Da quando era emigrato, oltre vent’anni prima, di lui non si avevano che scarse notizie: qualche cartolina, delle foto arrivate chissà quando, e di tanto in tanto qualche breve lettera, a caratteri incerti e in una lingua strana, per dire: «Qui tutto bene…come spero di voi».

L’unica cosa certa era che io portavo il suo nome. Da quando era partito la nonna diceva che era come se avesse perso un figlio, e quando nacqui, primo nipote dopo l’infausta partenza, fece di tutto perché mi affibbiassero il nome del figlio “perso” oltre oceano. Di lui sapevo poco, quasi nulla, ma quel nome aveva creatore una segreta sintonia, ed io per quelli di casa ero come un inconscio rinvio all’americano.

Arrivò, anche quell’anno, la vigilia di Natale.

Noi piccoli eravamo elettrizzati, non si vedeva l’ora che finisse il cenone per andare finalmente tutti insieme ad aprire i regali.

Movimenti concitati, nell’aria il fruscio di carta strappata, qualcuno litigava con nastri e fiocchetti, scatole gettate in un angolo, espressioni di compiaciuto stupore e noi che non riuscivamo a contenere la felicità: gridi di sorpresa, salti di gioia. La concitazione era irrefrenabile, l’uno mostrava i propri regali all’altro ciascuno contento di aver ricevuto il suo.

E per ciascuno il regalo mandato dall’ Argentina da zio Vincenzo.

Baci, abbracci e «grazie» che riempivano lo spazio che tra noi era rimasto vuoto. Di sottofondo lo stereo mandava le note di un canto natalizio. Improvviso, inatteso, suonò il campanello di casa. Sul volto di tutti lo stupore. Un impalpabile punto interrogativo si era concretizzato e sembrava che ciascuno l’avesse appeso all’albero.

«Chi sarà mai?»
«Siamo tutti qui!»

Quel suono ci aveva paralizzati, come fosse stato il segnale convenuto perché ciascuno si pietrificasse nella sua posizione, come quando si giocava a uno, due, tre, stella. Nessuno si decideva ad aprire. Poi nonna lasciò il cerchio che attorniava l’albero.

La sentimmo gettare un urlo. Quando di scatto, come fosse svanito un incantesimo, ci precipitammo verso la porta trovammo nonna che piangendo, ridendo, gridando penzolava dal collo di uno spilungone ossuto e grigio che non cessava di chiamare: «Vinceeeenzoooooo…» e la «o» si era già da un pezzo gettata giù dalla tromba delle scale, ad avvisare i condomini che quello in famiglia Russo sarebbe stato un Natale speciale.

Tornati in noi, dopo l’iniziale e comprensibile stupore, lasciati lì albero e regali, ci trovammo tutti in cucina ad ascoltare zio Vincenzo, che di cose da raccontare ne aveva un sacco pieno.

E fu così che quell’anno la fatidica ora della Natività scoccò mentre tutti pendevamo dalle labbra di uno che veniva d’oltre oceano ma che in fondo non era mai partito per davvero e le sue parole, in un buffo idioma che intrecciava tre lingue ben diverse, sembravano tante pecorelle che, ora lente, ora a balzi, precedevano i pastori a Betlemme.