Tra la gente, per la gente

ra due anni festeggerò i sessant’anni anni da parroco»: scherza don Daniele Muzi sulla ricorrenza dei suoi sessant’anni di Messa, ricordati dal vescovo Domenico durante le iniziative in onore della Madonna di Malito a Corvaro. «Ho preso possesso della parrocchia il 28 luglio del 1962», racconta il sacerdote, ordinato il 26 giugno del 1960 insieme a don Filippo Sanzi. L’incarico di parroco di Corvaro gli arrivò dopo un breve periodo da insegnante in Seminario e all’epoca il paese nel Cicolano «sembrava tanto distante da Rieti». Un po’ perché il capoluogo guardava forse più verso la Sabina che non alle aree interne, e un po’ perché ancora non c’era la superstrada, la cui costruzione «fu sollecitata da noi parroci: eravamo 54 e abbiamo scritto alle istituzioni. La stampa diede molto risalto alla nostra lettera, notando che non ci occupavamo solo di dire la Messa, ma dei problemi concreti della gente».

Sacerdote tra i problemi della gente

E forse è proprio la lente della pastorale sociale quella che aiuta a leggere i sessant’anni di attività pastorale di don Daniele: «Quando sono arrivato, Corvaro era un popolo di braccianti agricoli e di pastori. La cultura era limitata, ma era un paese di bambini: tanti quanti ne avevo lasciati a Rieti venendo da San Michele Arcangelo. Oggi ce ne sono forse la metà. Ma il paese sembra avere un avvenire proprio grazie alle vie di comunicazione». E non solo perché oggi si passa dal paese per andare a Roma, Rieti, L’Aquila e Avezzano: «Con la costruzione delle strade e lo scavo delle gallerie la gente ha imparato l’arte: si sono trasformati da pastori e agricoltori in carpentieri, muratori, operai specializzati. Chi venne a guidare i cantieri della superstrada riconobbe nella gente la voglia di imparare e lavorare e ebbe il coraggio di assumere e formare. Con il risultato che i lavori finirono anche prima del tempo». Quanto all’agricoltura, «è ancora apprezzata, ma gli addetti sono diminuiti: c’è sempre sacrificio, anche se sono arrivati i mezzi meccanici».

Dal Concilio una spinta alla modernizzazione

In questo processo di emancipazione si innesta la parrocchia, attraverso la quale don Daniele sente di dover far vivere la spinta del Concilio: «Sono arrivato a Corvaro a 27 anni. Mi sono detto che non potevo invecchiare a trent’anni. Quindi sono tornato all’Università Lateranense, ho conseguito la licenza in Teologia e la specializzazione in Catechesi, facendone tesoro. La cultura a Corvaro era poca, le scuole si fermavano alla quinta elementare. Solo a Borgorose c’era un inizio di scuola media. Poi piano piano abbiamo iniziato a istituire i corsi popolari serali, che il Provveditore agli Studi vedeva di buon occhio, e abbiamo iniziato a fare cultura. C’erano molti analfabeti e molti emarginati dalla vita civile. In tanti campavano con un po’ di legna raccolta e rivenduta, ma spesso venivano denunciati. A poco a poco ne abbiamo riabilitati tanti».

L’eco del terremoto

Un’inclinazione per il sociale in parte ereditata anche un suo predecessore, don Filippo Ortenzi, che si impegnò molto per accompagnare la ricostruzione del paese dopo il terremoto di Avezzano del 1915, che fece contare 75 vittime tra Corvaro e Santo Stefano.
«Quando si ricostruì Avezzano – spiega don Daniele – si sviluppò una sorta di colonia di persone di Corvaro; altri, tanti altri, emigrarono in Argentina. Sono stato anche a trovarli».

La forza dell’oratorio

Ma è soprattutto nello sviluppo culturale che don Daniele ha giocato le sue carte. E non solo lavorando «con quei pochi, bravissimi, maestri che c’erano», ma anche puntando sulle attività dell’oratorio. «Tutte le domeniche proiettavo due film: uno per i ragazzi e uno per i giovani. Appena usciva un titolo di qualità andavo a Roma e lo noleggiavo. Ho cominciato con le pellicole in 8 mm per poi passare al 16 mm. Allora era l’unico diversivo in paese, diversamente da oggi che hanno tutti il cinema in casa. Allora la sala era sempre piena, anche perché, facendo tanti sacrifici, riuscivo a non chiedere un biglietto di ingresso. Questo, ovviamente, d’inverno: l’estate i ragazzi preferivano giovare all’aperto. Piano piano sono cresciuti e hanno iniziato a metter su lo sport. Gli ho dato fiducia e hanno camminato con le gambe loro. Hanno una squadra e oggi sui giovani ci lavorano loro».

La passione per il teatro

Ma l’impegno di don Daniele non si esaurisce tra cinema e pallone: «Quando sono arrivato c’era già qualcosa di seminato. Si presentò da me un gruppo di giovani: avevano messo in scena un dramma sulla Legione Straniera: La gloriosa canaglia. Me lo riproposero: in seminario avevo recitato per sette anni e conoscevo un po’ la materia. Così abbiamo messo su l’attività teatrale, un’esperienza che continua ancora oggi. Quest’anno non abbiamo potuto provare a causa della pandemia, ma qualcosa inventeremo. Lo facciamo all’aperto ed è sempre apprezzatissimo. Facciamo spesso commedie satiriche che puntano l’accento sugli andamenti della società. Abbiamo divertito e anche contribuito a cambiare mentalità».

Fiducia nei giovani

Di sicuro il profilo di Corvaro è molto cambiato in sessant’anni: «Rispetto al mio arrivo ci sono tanti laureati, tante persone che sono riuscite ad affermarsi nella vita. Il paese si è sviluppato in modo più solido di quelli attorno. Funziona come centro commerciale per chi ritorna in zona nel periodo estivo e mantiene tutti i servizi. L’asilo è stato ricostruito nuovo, la scuola è messa bene, le cose funzionano discretamente. Certo, le famiglie si sono ridimensionate, ma quando vado per le benedizioni ne conto quasi 600. La popolazione invecchia, ma non mancano giovani che non si arrendono e si organizzano».

Una Chiesa in uscita

Un po’ come lo stesso don Daniele, che per mantenere le sue sette chiese ha dovuto anche inventarsi impresario per commissionare e seguire i lavori, rifare i tetti, riparare i danni causati dai terremoti, senza mai mettere da parte l’azione pastorale. Come, ad esempio, con la Comunità di lavoro organizzata per i pastori. «Era quasi un modello», tanto da essere scelta per rappresentare la diocesi a Roma per il raduno e l’udienza con papa Paolo VI. «Portammo come dono un agnello – ricorda don Daniele – e il giorno dopo sull’Osservatore Romano la foto in prima pagina era proprio quella di un nostro pastore che lo offriva al Pontefice».
Questa voglia di uscire e mettersi in movimento è un’altra chiave di lettura del sacerdozio di mons Muzi. «Mi ero accorto che la gente non era mai visto nulla fuori dal paese, nemmeno per lavoro. Allora ebbi l’intuizione di fare pellegrinaggi: l’unico che conoscevano era quello alla Santissima Trinità di Vallececa. Il primo che organizzai era al santuario di San Gabriele; poi con il tempo siamo andati a Lourdes, in Terra Santa, e in tanti altri luoghi ancora, anche in Turchia e in Libano. Ho lavorato tanto nella pastorale itinerante e ancora ci sono dentro, perché mi sono accorto che il pellegrinaggio, se ben accompagnato, è una delle migliori forme di evangelizzazione e di predicazione, ma anche di formazione e di conoscenza del mondo».