Superare le divisioni per il bene di tutti

Giovedì della XXXI per annum

(Rom14, 7-12; Lc 15, 1-10)

“Nessuno di noi vive per se stesse e nessuno muore per se stesso… Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E tu, perché disprezzi il tuo fratello?”. Paolo scrive ad una comunità che è divisa in due. Ci sono i forti che rispetto ad alcune pratiche rituali circa gli alimenti pensano si tratti di un problema superato e ci sono i deboli che restano invischiati nelle antiche prescrizioni e si scandalizzano. Paolo rimette al centro l’unità della comunità che è il valore supremo e raccomanda di non ergersi a giudici. Invita gli uni e gli altri a non ergersi a giudici e a superare questo divisione che rischia di compromettere il bene supremo che è Gesù Cristo. “Sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore”, afferma senza mezzi termini.

Anche ai nostri giorni il rischio di dividersi dentro la comunità cristiana è possibile. Ci si divide tra i forti e i deboli. I forti sono quelli che hanno integrato la fede dentro una visione più completa e non si lasciano arrestare da fatti o episodi che possono essere degli ostacoli. Vanno al di là e non compromettono l’unità della fede rivangando o rimestando nel passato. I deboli sono quelli che non hanno ancora una maturità di fede, non hanno ancora integrato psicologicamente l’esperienza ecclesiale e rischiano di alimentare la polemica fine a se stessa. Bisogna che entrambi, i forti e i deboli, facciano uno sforzo di comprensione perché si superi lo stato d’empasse e si vada avanti per il bene di tutti. Anche nel vangelo Gesù sembra ribadire con forza questa convinzione. Non che sia un ingenuo che non conosce il peccato e dunque lo scandalo dell’incoerenza. Ma a tutti offre l’opportunità di sentirsi accolti e non giudicati. Per questo crea le premesse di una conversione fino a quel momento impensabile. Addirittura Gesù per dare concretezza al suo parlare inventa due parabole che vogliono mostrare la passione che ha Dio per quelli che si perdono. Perché non si sentano abbandonati. Come la pecora perduta, l’unica tra le 99, per la quale il pastore si mette in strada non preoccupandosi di quelle che stanno al sicuro. O come la donna che nel buio della casa cerca di ritrovare la moneta perduta fidando nel tintinnio sul pavimento grezzo della sua casa. In entrambi i casi c’è un desiderio che è più forte del male e dello scandalo. Si cerca, si accoglie, si perdona perché nessuno si senta fuori posto a casa. Una comunità cristiana oggi e la parrocchia dovrebbe diventare tale è una casa ospitale dove nessuno si sente escluso. Dove si impara a convivere anche mutando atteggiamenti sbagliati, ma sulla premessa che a tutti è possibile essere accolti se si desidera cambiare. Don Mazzolari parlava del “focolare che non conosce assenze”. L’augurio è che questa comunità di Monteleone sotto la guida saggia e concreta di don Sante assomigli sempre di più a questa immagine. Ne va della sua fedeltà al vangelo.