Passo leggero, veloce e tenero. Così cammina la «Rivoluzione gentile»

Tornando sulla proposta di una «Rivoluzione gentile», in occasione del forum che «Il Messaggero» e la Alessandro Rinaldi Foundation hanno voluto promuovere per trasformare il dibattito in città in un’agenda condivisa, il vescovo Domenico ha voluto approfondire il senso della “gentilezza” posta al centro del suo Discorso alla città, precisando che non attiene ai buoni sentimenti, ma a «una strategia di lungo periodo, che richiede tre cose».

Con passo leggero, con velocità, con tenerezza verso il territorio

Le prime due hanno il sapore della leggerezza e della velocità evocate dalle Lezioni americane di Italo Calvino. Perché la rivoluzione che ha in mente mons Pompili va fatta «con passo leggero»: quello che permette di «velocizzare i processi», non per dare seguito alla fretta che assilla il nostro tempo, ma perché aveva ragione l’economista John Maynard Keynes a constare che «sul lungo periodo saremo tutti morti».

L’urgenza vale in modo speciale per la ricostruzione: «se non si leva qualche gru, avremo desertificato il territorio», sottolinea don Domenico. Il vescovo parla di cose che conosce da vicino, per la sua presenza costante nei luoghi del terremoto, ma anche per l’impegno preso con la Casa del Futuro ad Amatrice: un progetto della diocesi che sarebbe la prima vera opera di ricostruzione a partire. Il richiamo del vescovo è dunque alla responsabilità di tutti: non solo della politica, ma anche dei funzionari, degli impiegati, di chi deve mettere timbri e firme: «se non acceleriamo vuol dire che di quel bene non rimarranno altro che macerie, perché il tempo è una variabile decisiva». Ecco allora la necessità dell’altro aspetto strategico della rivoluzione gentile, che consiste nel «guardare con tenerezza al territorio». Il sentimento è quello di chi partecipa, di chi guarda «da dentro», perché vuole restare, e non dall’esterno, come chi «è già in fuga per salvarsi».

Dall’Università all’identità

Chiarito lo sfondo del ragionamento, mons Pompili è entrato nel merito dei tre punti all’ordine del giorno del forum. E a proposito dell’Università, ha ricordato come Rieti sia una città dall’identità culturale profonda, coltivata in passato da figure che hanno reso il territorio ancora più prezioso, e con molte carte da giocare anche nel presente. Il polo universitario, allora, non può essere una scelta tra le altre, ma va colto come una grande opportunità. Esempi di successo non mancano: Camerino, ad esempio, o ancora Pollenzo, che vanta una Università di 800 studenti ben caratterizzata; a fare la forza di un polo culturale è l’identità e questa non è estranea ai luoghi. «Un centro universitario che voglia diventare qualcosa di attrattivo – ha rilanciato il vescovo – non può essere un generico istituto per geometri». Mons Pompili si è detto convinto che portare l’Università in centro sarebbe anche un modo per rianimare il territorio. Oggi il centro storico è un deserto, «ma non possiamo attenderci soluzioni dal commercio» e non saranno di certo i «mercatini» a fare la differenza. Inoltre, riuscire a utilizzare palazzo Aluffi vuol dire valorizzare i soldi pubblici che ci sono stati spesi, e dare una possibilità al coinvolgimento concreto della Provincia, vuol dire dare un segno di apertura per chi si impegna e non si defila.

Tornare ad innamorarsi del treno

E a proposito di chi si impegna, don Domenico ha guardato con soddisfazione il dibattito sulla Salaria, ma non si è accontentato. Ha voluto infatti spezzare una lancia in favore delle rotaie, invitando a «innamorarsi di quella che è stata l’epopea della nostra ferrovia». Il riferimento è agli amministratori «molto agguerriti» che hanno portato all’inaugurazione della nostra stazione. Era il ventennio tra il 1850 e il 1870, un tempo in cui i sindaci salivano fino a Torino per presentare al Regio Governo il progetto di una ferrovia che da Pescara, passando per Rieti, arrivasse a Roma. «Ci avevano visto bene – ha ribattuto il vescovo – ma qualcosa ci ha evidentemente ci ha distolto dall’obiettivo». Si fece in modo che la ferrovia, da Rieti, invece di procedere verso Roma girasse verso Terni. Un cambio di orizzonte giustificato da una diversa geografia politica rispetto ad oggi, ma ci sarebbe da riprendere il dibattito. «La Pescara-Roma passando per Rieti non è un tema da sottovalutare. Se nel frattempo qualche treno bimodale può essere messo sulla tratta Rieti-Terni-Orte-Roma non è un male. Ma dobbiamo tornare all’intuizione dei nostri padri».

La forza di Francesco

E con questo invito a cogliere nel meglio del nostro passato le intuizioni per guardare al futuro, il vescovo ha parlato da ultimo del turismo religioso, smentendo un certo pessimismo sulle possibilità del reatino in questo campo: «Non siamo sottodimensionati, siamo dentro un territorio che ha nella sua storia un legame fortissimo con san Francesco». Non si tratta di fare campanilismo, ma di persuadersi che la figura di Francesco può essere sottratta a una certa geografia, che ne ha offerto una lettura più funzionale ad Assisi, mentre è a Rieti che il santo ha compiuto molti passi importanti.

In queste direzione vanno iniziative come la Valle del Primo Presepe e anche un eventuale Festival del Medioevo, centrato cioè sull’età che meglio ha caratterizzato la storia della città. «Potrebbero essere delle straordinarie opportunità sulle quali però dovremmo ritrovarci insieme». Cosa che forse non è ancora accaduta per il Cammino di Francesco: «la Fondazione omonima in questi anni ha sollecitato più volte un aiuto concreto per la messa a punto e la promozione. Dobbiamo fare anche qui squadra tra di noi. Il “Francesco di Rieti” può rappresentare una nicchia significativa del turismo religioso, un qualcosa che ha da dire cose molto più efficaci di quanto si muove in altri contesti».

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