Padre Orazio: «Non conta aver fatto molto, ma aver fatto il proprio»

Sette anni fa, frate Orazio è arrivato a Leonessa a piedi, “come da tradizione” quando viene assegnato in un nuovo territorio. Correva l’agosto del 2010, e il cappuccino ricorda di essere partito dal convento di Spoleto alle primissime ore del mattino, per arrivare in paese percorrendo sentieri di montagna nel tardo pomeriggio. «Come prima cosa sono andato a celebrare l’eucaristia nel vicino santuario, come ringraziamento. Poi una visita ad un mio confratello defunto sepolto qui e molto devoto a san Giuseppe. Da allora ad oggi ho ricevuto l’incarico di guardiano, maestro dei postulanti, vice maestro dei postulanti e parroco di Leonessa e frazioni insieme a padre Carmine Ranieri».

Considerate le alte temperature invernali che consentono di lavorare poco all’aperto, a Leonessa  rimangono i mesi estivi per curare l’orto, la legnaia, gli animali, il bel chiostro e tutto lo spazio circostante il convento. Frate Carmine e frate Orazio, rimasti soli dopo la morte di padre Anavio, hanno decisamente un bel da fare, ma non hanno alcuna intenzione di perdere l’entusiasmo e il sorriso: un atteggiamento propositivo ed accogliente che li ha accompagnati anche nei mesi del terremoto, di cui alcuni muri del convento portano ancora i segni.

«La notte del 24 agosto avevamo qui a Leonessa circa 160 giovani frati, radunati per una convocazione fraterna biennale. Dopo la scossa lasciarono velocemente l’hotel in cui alloggiavano per lasciar posto ali soccorritori e alla polizia». I cappuccini ebbero subito sentore che da allora il normale corso delle cose sarebbe radicalmente cambiato. Padre Orazio si mise immediatamente a disposizione della fraternità di Amatrice, lasciando i confratelli a gestire il convento: «partivo la mattina presto e tornavo la sera tardi, per dare un aiuto concreto ai parroci delle zone terremotate». Ma pochi mesi dopo la terra trema ancora, e stavolta Leonessa paga conseguenze più gravi «con le scosse di ottobre sono dovuto tornare in prima persona a fare il parroco della mia gente. C’era paura e smarrimento, abbiamo cercato di essere vicini alle persone, abbiamo ospitato persone in convento».

A causa delle chiese tutte danneggiate, i cappuccini si attrezzarono per dire messa nel palasport, là dove la gente terrorizzata aveva cercato riparo. Una situazione che perdura fino al gennaio 2017, quando la Caritas regala a Leonessa un Centro di comunità che funge da chiesa prefabbricata, accogliente e fornito di oltre cento posti a sedere: «un luogo di rinascita in un certo senso, caldo d’inverno e fresco d’estate, che vede la partecipazione di tante persone e ha permesso alla gente di tornare ad essere vicina alla Chiesa e viceversa».
Padre Orazio indica le crepe causate dal terremoto, sollevato dal fatto che l’antico convento abbia comunque retto bene al forte movimento tellurico. «Era il tardo ‘500, questa struttura stava per essere ultimata. I frati cappuccini erano nati da poco nella vicina Camerino, aumentavano di numero per cui pian piano si erano allargati fino a Cascia, Norcia e Leonessa. Durante i lavori di costruzione, il giovane leonessano Eufranio Desideri passò di qui e si innamorò di questa vita. Ma lo zio lo portò con sé a Viterbo, desiderando per lui una carriera da medico e una serena vita coniugale».

Il ragazzo soffrì talemente tanto di questa costrizione al punto da ammalarsi. Tornò nella sua Leonessa per curarsi e finalmente poté realizzare il suo desiderio di entrare tra i cappuccini. «Colui che sarebbe diventato il nostro san Giuseppe fu mandato in missione in Turchia a predicare il Vangelo al Sultano. Lì fu perseguitato a causa della sua predicazione e venne torturato atrocemente: fu appeso a un gancio e sotto di lui venne acceso un fuoco con lo scopo di farlo morire soffocato». Fu un veneziano a salvarlo e a permettergli di tornare in Italia, dove si dedicò agli oppressi e agli abbandonati, frequentando villaggi e luoghi isolati alla ricerca delle anime sperdute.

«Era un paciere, si narra che in Quaresima predicasse l’amore a Borbona invitando e convincendo con forza i borbontini a sanare l’antica rivalità con Posta. Ad Arquata del Tronto combatté invece tenacemente con alcuni ladroni: san Giuseppe riassume la vera spiritualità cappuccina, quella di farsi prossimo alle persone più bisognose».

Una spiritualità che rivive tra le spesse pareti del convento, che si respira fortemente nella celletta che fu dormitorio del Santo, dove si parla istintivamente a bassa voce, quasi Lui fosse ancora lì, rattrappito in uno scampolo di centimetri, per stare intenzionalmente scomodo e lasciare dunque meno tempo al sonno e più spazio alla preghiera. «San Giuseppe soggiornò sei mesi nel silenzio di questo dormitorio, nei suoi ricercati scritti che vergava utilizzando ogni spazio libero del foglio si evince il suo desiderio di dedicare più tempo possibile al rapporto con Dio».
Dalla minuscola finestrella con un affaccio mozzafiato si scorgono gli oltre 1600 metri di Colle Collato, luogo da lui amatissimo: «le cronache dell’epoca raccontano della croce in pietra che costruì in cima al monte, trasportando le pietre oltre il fiume Tascino insieme ad un altro frate. Si narra che per placare la sete del confratello san Giuseppe fece sgorgare acqua dalla roccia con un segno del crocifisso che portava sempre con sé».

All’interno della celletta, il reliquiario con il gancio in ferro che Giuseppe teneva conficcato nel polso: padre Orazio ne racconta con voce tremula la tormentata storia: «Per una coincidenza di eventi San Giuseppe morì ad Amatrice. A seguito di un violento terremoto i suoi resti furono lasciati lì: venuti a sapere della cosa, i leonessani di notte trafugarono il corpo e lo portarono in paese. Dalle spoglie emerse la laringe ossificata segno della grande predicazione, il sangue coagulato, il cuore incorrotto ora conservato in santuario e questo gancio».

La devozione che lega indissolubilmente i paesani al loro patrono e alla sua storia i cappuccini la conoscono bene e l’assecondano fin dai tempi del loro arrivo tra i monti dell’alto Lazio. Due storie di vita, quelle di padre Orazio e padre Carmine, che negli anni si sono intersecate più volte e ora si apprestano a tagliare quasi in contemporanea il traguardo dei vent’anni di sacerdozio.

«Ci siamo conosciuti a Spello durante gli anni di postulato, abbiamo concluso insieme il nostro percorso diventando sacerdoti nello stesso periodo. Il destino ha voluto poi che dopo altre destinazioni due anni fa ci ritrovassimo qui a Leonessa insieme». La vita di Orazio, nato in una località di mare, viene del tutto rivoluzionata dopo la scoperta della vocazione: «i miei avevano un bar a Pescara e io lavoravo come rappresentante di gelati, mi piaceva molto, il mio sogno era quello di realizzare una famiglia con la mia fidanzata». Con i frutti del suo lavoro Orazio aveva comprato anche una casa per vivere il legame coniugale: una casa in seguito venduta in comune accordo con i genitori per realizzare una struttura solidale in Colombia. «Sono vent’anni, e eccomi ancora qui. Nonostante qualche errore, certamente rifarei tutto. Ritengo che quel che conta non sia fare tutto, ma fare quel poco che possiamo con gioia ed entusiasmo».