La comunicazione per una cultura dell'accoglienza della vita

Premessa

Comunicare non è trasmettere, ma incontrare, accogliere, condividere. Se abbiamo fatto tesoro dei messaggi per le giornate mondiali delle comunicazioni sociali degli ultimi anni dovrebbe essere per noi ormai naturale trovarci d'accordo su quest'accezione, coerentemente alla quale i media non sono strumenti per recapitare messaggi, bensì strade per avvicinarci e luoghi per incontrarci.

Quindi, il medium più importante siamo noi, con la ricchezza dei nostri registri comunicativi nella prossimità: dal sorriso al silenzio, dall'abbraccio alle lacrime, dalla carezza allo sguardo benevolente.

Non c'è comunicazione fuori dalla relazione, che è incontro e accoglienza reciproca.

Ma cosa accogliamo e incontriamo veramente, in questo evento antropologicamente costitutivo che è la comunicazione?

Prima di tutto incontriamo l'altro, che è chi oppone resistenza, e dunque un limite, al nostro 'io'. E così facendo, come ci hanno aiutato a comprendere autori quali Ricoeur, Lévinas, De Certeau, ci libera dalla prigione di noi stessi, da una autoreferenzialità che diventa chiusura asfittica e coazione a ripetere, da un delirio di onnipotenza che produce violenza distruttiva e autodistruttiva.

Ma insieme all'altro, e grazie all'altro, incontriamo anche la verità di noi stessi: cioè che siamo relazione. Dunque la relazione è vita, e la vita fluisce attraverso le relazioni che sappiamo tenere aperte, mentre si spegne dove cerchiamo di trattenerla, dominarla.

Le relazioni vitali sono quelle tra alterità che si fanno tramiti, mediatrici di una vita che le precede e le segue, che è un dono di cui essere grati e non un 'prodotto' di cui essere tronfi. Tanto meno è un prodotto delle connessioni tecniche. Se la tecnica si mette al servizio di questa verità è un aiuto preziosissimo! Viceversa, una cultura che disconosce ciò che è 'donato' e attribuisce valore solo a ciò che è 'prodotto' è una cultura che diventa disumana, come già riconosceva Hannah Arendt (nel Prologo di Vita Activa).

La comunicazione autentica, dunque, è vita; e la vita si trasmette e dura in quanto si comunica.

La comunicazione, poi, è sempre tra alterità in relazione.

Il paradigma, per noi cristiani, ha il nome di Gesù: Parola che si è incarnata e rivelata per salvarci e regalarci la vita eterna, indicandoci e aprendoci la via.

Questa verità relazionale, dove 'tutto è connesso' (Laudato Si 16) può essere offerta (proposta e non imposta) al mondo sotto forma di 'saggezza', secondo la prospettiva 'in uscita' di Papa Francesco, come contributo a un dialogo che può e deve restare aperto; e dal quale, forse, abbiamo anche qualcosa da ascoltare.

Il contesto della comunicazione oggi: perché le provocazioni del postumano vanno ascoltate

In questo momento di grandi sfide culturali, in cui vengono evocate vere e proprie mutazioni antropologiche, dobbiamo stare sempre attenti a non compiere un errore assai comune, del quale spesso accusiamo gli altri: chiudere l'ascolto verso ciò che ci pare troppo lontano. Questo atteggiamento ci preclude insieme la possibilità di portare un contributo positivo al dialogo, una voce che in tanti casi può fare la differenza, e al contempo ci priva della scomoda ma utile possibilità di lasciarci provocare e mettere in discussione, per purificare e rigenerare la nostra capacità di comunicare la verità in cui crediamo e della quale siamo sempre inadeguati testimoni (quando lo siamo).

La forma filosofica, la proposta teorica e antropologica che ha rivestito lo straordinario sviluppo della tecnica, ma che si è dovuta confrontare anche con gli effetti collaterali distruttivi di questo strapotere, è certamente quella corrente, variegata al proprio interno, che si riconosce nella definizione-ombrello di Postumano.

Un filone di riflessione che va preso sul serio e non combattuto a priori come un nemico tout court perché, al di là delle tante posizioni difficilmente accettabili, almeno alcuni aspetti sono condivisibili e allestiscono le condizioni di un dialogo in cui non c'è nulla da perdere, ma solo passi utili per avanzare verso una vita buona insieme, in un mondo plurale. Si tratta in altre parole di valorizzare quel 'momento sapienziale' dell'incontro tra fede e cultura, indispensabile oggi, di cui parla Papa Francesco nell'articolo di Civiltà Cattolica anticipato sul Corriere del 5/11 scorso con il titolo 'Non abbiate paura del conflitto'. Non si può non dialogare col mondo e cercare di far crescere ciò che abbiamo in comune.

1.1. Il primo aspetto da considerare è la critica alla forma che ha assunto l'umanesimo, come tirannia dell'uomo sul cosmo, concepito di conseguenza come materiale a sua disposizione. Tanto che molti autori sostengono di non essere nemici dell'umano, ma della forma che l'umanesimo storicamente ha assunto, sotto le sembianze di un astratto universalismo che in realtà assolutizza un ideale di dominio. 'Libero è colui che domina' scrive anche Benasayag.

Tra le tante voci quella autorevole di Cary Wolfe: 'Il Postumanismo nel senso in cui lo intendo non è affatto post-umano – ovvero legato al superamento del nostro essere corpo – ma è solo post-umanista, nel senso che contesta le fantasie di disincarnazione e autonomia ereditate dallo stesso umanesimo' (C. WOLFE. What is Posthumanism? Minneapolis: University of Minnesota Press, 2010, p. xv.)

E ancora, sulla stessa linea un'altra accreditata studiosa nel campo: 'Il postumano non implica davvero la fine dell'umanità. Esso implica piuttosto la fine di una certa concezione dell'umano' (Katherine Hayles, How We Became Posthuman, University of Chicago Press, Chicago 2009, 286).

E persino una studiosa radicale come Rosi Braidotti (influente femminista postmoderna autrice de Il Postumano, Roma, DeriveApprodi, 2014) ha ammesso che non c'è incompatibilità tra alcun ideali del Postumanismo (tra i quali 'i principi di base della giustizia sociale, il rispetto della dignità e della diversità umana, il rifiuto del falso universalismo, l'affermazione del valore della differenza, il principio della libertà accademica, l'anti razzismo, l'apertura agli altri, la convivialità…) e il meglio dei valori umanisti.

Nonostante le molte posizioni non condivisibili (come l'estensione della soggettività agli animali e persino alle macchine), la critica all'eccesso di antropocentrismo dell'umanesimo moderno ha le sue ragioni, va presa sul serio, ci deve far pensare e sollecitare una opportuna autocritica.

E non è però necessario condividere l'immanentismo materialista dei postumanisti per essere critici verso la deriva 'tirannica' dell'umanesimo moderno.

Basta prendere in mano la Laudato Si: al n. 69, per esempio, Papa Francesco esprime una dura critica a un 'antropocentrismo deviato' che non rispetta 'la bontà propria di ogni creatura'; un antropocentrismo moderno, che 'paradossalmente ha finito per collocare la ragione tecnica al di sopra della realtà' (115). E non esita a parlare dei pericoli di un 'eccesso antropocentrico che, sotto altra veste, oggi continua a minare ogni riferimento a qualcosa di comune e ogni tentativo di rafforzare i legami sociali' (116), riconoscendo che 'un antropocentrismo deviato dà luogo a uno stile di vita deviato (122).

D'altra parte già Guardini metteva in guardia sul rapporto perverso tra 'una concezione dell'uomo quale unico responsabile e padrone (Herr) della propria esistenza' e lo smarrimento moderno del 'senso, prima vivissimo, della fondamentale intangibilità della vita umana' (Il diritto alla vita prima della nascita, p. 8). Per questo, 'l'uomo è diventato, non solo rispetto alle cose, ma anche agli altri uomini, molto materiale, incline cioè a trattare i suoi simili come 'cose' che cadono sotto la categoria dell'utilità' (ivi, p.12).

Non è solo dalla prospettiva materialistica del postumano, dunque, che provengono le doverose critiche alle derive che un antropocentrismo tirannico ha impresso all'umanesimo a partire dalla modernità. Su questa convergenza, benché su premesse diverse, si può in ogni caso molto lavorare per umanizzare il nostro tempo concentrando le forze su singoli obiettivi condivisi (basta pensare alla critica di molte femministe non credenti alla questione dell'utero in affitto).

Nel V convegno ecclesiale di Firenze 'In Gesù Cristo il nuovo umanesimo', che si apre tra due giorni, si è proprio scelta la via dell'umanesimo concreto, onde evitare il rischio di quell'astrazione disumanizzante da cui non siamo, o almeno non siamo stati, affatto immuni.

1.2. Anche altri aspetti vanno considerati come possibile presupposti di dialogo: pur in un quadro di radicale immanenza, il postumano esprime da un lato una giusta insofferenza per i dualismi che nella modernità hanno condizionato la concezione dell'umano (mente e corpo, materia e spirito, natura e cultura) e, in positivo, una tensione all'autotrascendimento, al non fermarsi al dato di fatto, al superamento dei limiti; e a una fratellanza col cosmo rispetto alla quale, pur nella differenza di cornice, non si possono non riconoscere affinità.

Sulla critica al dualismo, compreso quello tra natura e cultura, valga una volta per tutte il contributo di Guardini: 'La cultura è nata dalla vita dell'uomo e da un intimo legame con la natura' (Lettere dal Lago di Como, p. 77); e ancora: 'La natura comincia veramente a riguardarci appena essa comincia a essere 'abitata', quando cioè la cultura vi ha fatto la sua prima apparizione. Da allora la natura progredisce, e poco a poco viene ad assumere nuove forme' (Guardini, Ivi, 16) ; 'non abbiamo mai avuto un rapporto con una natura assolutamente incontaminata: (…) la nostalgia di una natura allo stato puro è già in sé una manifestazione di cultura' (ivi, p. 16).

Non ha dunque senso pensare natura e cultura in termini di dualismo e opposizione perché 'tutto è costruito partendo dall'uomo e perciò tutto è assolutamente umano. E tutto trae origine da un'unione con la natura e perciò è così profondamente naturale' (ivi, p. 84).

'Astrarre' la natura dalla cultura, contrapponendole, è il primo passo verso la frammentazione disumanizzante.

Disincarnazione e dualismo sono nemici del vero umanesimo, che si ricapitola nella figura di Gesù.

Nella Laudato Si Papa Francesco illustra bene questo punto:

'Gesù viveva una piena armonia con la creazione, e gli altri ne rimanevano stupiti: « Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono? » (Mt 8,27). Non appariva come un asceta separato dal mondo o nemico delle cose piacevoli della vita. Riferendosi a sé stesso affermava: « È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco, è un mangione e un beone”» (Mt 11,19). Era distante dalle filosofie che disprezzavano il corpo, la materia e le realtà di questo mondo. Tuttavia, questi dualismi malsani hanno avuto un notevole influsso su alcuni pensatori cristiani nel corso della storia e hanno deformato il Vangelo' (98).

1.3. Dopo aver riconosciuto alcuni punti di connessione come presupposti di un dialogo possibile e prima di procedere oltre è però importante rimarcare una distinzione solo apparentemente nominale: quella tra postumanesimo e transumanesimo.

Mentre il primo, come si è visto, non rifiuta in toto l'umanesimo, bensì contesta soprattutto alcune delle sue derive (cadendo peraltro poi in eccessi di segno opposto), il secondo prefigura un completo superamento dell'umano attraverso il suo potenziamento tecnico, che alla fine rende il corpo stesso un ostacolo e una zavorra al potenziamento attraverso la tecnica. Rischiamo di diventare pleonastici, secondo la famosa frase di Douglas Coupland, autore del famoso romanzi Generazione X: 'The future loves you but it doesn't need you'.

Al di là degli eccessi futuristici (verso i quali gli stessi studiosi postumanisti sono molto critici), la capacità di manipolare sempre più in profondità la nostra dimensione corporea, fino alla struttura stessa del genoma, oltre ad aprire scenari inquietanti (già prefigurati dalla letteratura: pensiamo a Huxley e al suo Brave new world) pone anche sfide antropologiche potentissime, che mettono in gioco questioni completamente nuove: per esempio, quale significato esistenziale e sociale attribuire alla disabilità in un contesto in cui persino il concetto di 'abilità' è messo in discussione dalle possibilità di manipolazione tecnica? Detto brutalmente, in un contesto in cui rischiamo la disabilità solo se non accettiamo di farci potenziare dalla tecnica? (Il concetto di ableism e una serie di altre importanti questioni legate alla percezione e valutazione del corpo nell'era della tecnica sono al centro di un numero monografico della rivista Comunicazioni Sociali, 2/2105, dal titolo Being Humans: the Human Condition on the Age of Techno-humanism, a cura di C. Giaccardi).

Mentre non dobbiamo correre il rischio di equiparare in modo semplicistico il naturale con l'autenticamente umano e l'artificiale con il disumano (cosa faremmo senza occhiali, protesi dentarie, pace maker o i recentissimi impianti cocleari capaci di ridare l'udito ai sordi?) è indispensabile porre un confine tra le due ordini di finalità fondamentali della tecnica oggi, ovvero 'terapeutico' (healing), per prevenire, curare, recuperare in tutto o in parte facoltà compromesse o perdute o per rimediare a patologie più o meno gravi; e 'migliorativo' (enhancing) per potenziare facoltà naturali o per generare capacità inedite.

Se dunque, con un gesto di umiltà, dobbiamo riconoscere di non essere riusciti a impedire la deriva dell'umanesimo verso l'astrazione, il dualismo, l'antropocentrismo tirannico, è anche doveroso prendere una iniziativa di dialogo anche con chi è su posizioni in larga parte diverse, ed è altresì necessaria un'assunzione di responsabilità per porre con fermezza – e anche qui cercando alleanze su punti di contatto, che ci sono – la questione del limite.

Il limite ė condizione dell'umano

Miguel Benasayag, nel suo L'epoca delle passioni tristi (2004) distingue tra pensabile, ciò che ė ritenuto accettabile perché adatto alla vita e rispettoso dei fondamenti di una società, e possibile, un insieme molto più ampio che include tutto ciò che può essere fatto.

Ogni società fissa un confine tra 'possibile' e 'pensabile', attraverso dei divieti (es: non uccidere, non praticare l'incesto) il cui rispetto è fondamentale per poter vivere insieme. Di fatto, 'le frontiere tra il possibile e ciò che lo limita (il pensabile) si spostano in funzione delle situazioni e dei periodi storici' (p. 92).

Oggi è successo che grazie alla tecnica il repertorio del possibile si è enormemente ampliato, e nello stesso tempo la frontiera tra possibile e pensabile, tra fattibile e accettabile, si è assottigliata fin quasi a sparire.

Ma, come afferma lo stesso Benasayag, 'una società che rende pensabili tutti i possibili è destinata a scomparire' e, da bravo psicanalista, ammonisce che 'il posso tutto è uno dei nomi della psicosi' (p. 94).

La questione diventa urgente persino all'interno della stessa 'cultura dei diritti' che ha sempre promosso, in nome di un individualismo che non accetta freni alla propria autorealizzazione, l'equazione tra 'fattibile' e 'legittimo'. Infatti, proprio in nome dell'individualismo nascono conflitti di interessi che solo ora cominciano a emergere, ponendo in una luce grottesca tutte le retoriche libertarie. Nel caso della fecondazione eterologa, per esempio, il diritto all'anonimato del donatore e alla riservatezza del genitore collide col diritto del figlio, una volta cresciuto, di sapere da dove viene, quali sono le sue vere origini, e, più banalmente, a quali patologie legate a familiarità potrà andare incontro.

Non è privo di significato che tra i maggiori sostenitori della necessità di porre limiti, soprattutto alla genetica, ci siano intellettuali di tradizione liberale come Jurgen Habermas (Il futuro della natura umana, Einaudi 2002) e Francis Fukuyama (Our post-human future. Consequences of the Biotechnology Revolution, New York 2002).

Secondo Fukuyama, per esempio, uno degli effetti della manipolazione genetica è un aumento delle disuguaglianze: c'è una sorta di 'faziosità del Postumanismo' quando non si pongono limiti alla manipolazione, distruggendo così quella uguaglianza di possibilità che caratterizza gli esseri umani al momento della nascita. Se non si potrà più dire che 'gli esseri umani sono uguali per natura' ci saranno serie conseguenze per la libertà e la democrazia.

Habermas, che insiste sulla differenza tra una 'eugenetica negativa' (che interviene per prevenire malattie genetiche e dunque terapeutica) e una 'eugenetica positiva' (che interviene a livello genetico per potenziare l'individuo, dunque migliorativa) mette in evidenza l'inevitabile e devastante collisione tra la 'libertà eugenetica' dei genitori e la libertà etica dei figli. Il giovane che sia stato geneticamente manipolato prenderà coscienza di sé come qualcosa di tecnicamente prodotto: la percezione della sua prospettiva “vita vissuta” entrerà in collisione con la prospettiva oggettivante di chi ha pensato a lui come a un prodotto e un esperimento. Inoltre, la pianificazione dei genitori esprime un’aspettativa unilaterale, che impone una decisione su chi non può che subire.

Come scrive Habermas, 'Nel momento in cui il giovane viene a sapere del “design” con cui qualcun altro ha progettato la modifica delle sue caratteristiche genetiche, allora la prospettiva dell’essere-prodotto può effettivamente sovrapporsi (e sostituirsi) alla prospettiva dello spontaneo essere-organismo'.

In altri termini, la procreazione diventa produzione.

Per questi autori, il destino dell'umanesimo dipende dal saper trovare e rispettare un punto di 'inviolabilità'.

Volutamente si sono scelti intellettuali che sostengono la necessità di porre un limite alla manipolazione genetica da un punto di vista squisitamente laico. La sovranità come dominio sulla vita, che pare un atto di libertà estrema, si rivela in realtà uno strumento di disuguaglianza e una violazione dell'integrità individuale.

Se manipolare la vita altrui non può essere ritenuto accettabile, anche al di fuori di una prospettiva religiosa, ancora meno lo è sopprimerla.

Mors tua vita mea non può essere mai un principio di libertà. È questa affermazione, sulla quale non possiamo non essere d'accordo, oltre che dai centri di aiuti alla vita è venuta anche da un controverso ma lucidissimo critico delle derive della modernità, del quale abbiamo appena ricordato i 40 anni della morte.

Dichiarava Pasolini, in Scritti corsari:

“Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio”.

'La legge sull’aborto, sopprimendo l’esistenza di creature inermi, è senz’altro l’espressione più spietata del razionalismo positivista'

'Oltre la stessa Fede ho sempre ritenuto la vita un valore laico e poi non mi andava di tirare per la giacca Dio per contrastare il pensiero di un uomo, mi appariva quasi blasfemo. Dicevo: “Se tutti gli uomini sono stati embrioni, perché non tutti gli embrioni possono diventare uomini?”

E ancora:

“Come si può stabilire per legge un termine entro il quale la vita non è tutelata?” e nessuno sapeva mai rispondere a queste banali domande. L’aborto è una sconfitta della ragione e dei sentimenti, un crimine legalizzato, utile soltanto a rafforzare il relativismo etico tanto caro al potere consumistico. Per questo penso che nessuno possa dirsi abortista, per questo ritengo che la guerra all’aborto sia l’unica guerra in cui lo sconfitto è chi non combatte.

L'aborto impone agli individui un nuovo stile di vita, portandoli a una vera e propria sclerotizzazione dei valori. L’aborto infatti, libera l'atto sessuale dal peso della responsabilità intime di una maggiore libertà. Ma questa libertà, “tacitamente voluta […] dal potere dei consumi”, è diventata “una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un'ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore”.

Trovare, grazie a un dialogo aperto, punti di convergenza con il mondo laico per tutelare la dignità della vita dalle spinte commerciali, tecnocratiche, prometeiche è oggi un compito cui non dobbiamo sottrarci.

La comunicazione per un'autentica cultura dell'incontro e per vivere bene nella casa comune

La comunicazione non è se non relazione (E. Borgna, Parlarsi, Torino Einaudi 2015, p. 8)

È uscire da se stessi e immedesimarsi nella vita interiore di un altro da noi.

La stessa tesi sostenuta da S. Turkle, nel suo ultimo libro dal titolo Reclaiming conversation. The power of talk in a digital age, 2015. Parola chiave è 'empatia', che rischia di diminuire se ci affidiamo troppo alla tecnologia, quasi fosse capace di 'produrre' la capacità di comprendersi. Troppo assorbiti dai display, disimpariamo questa preziosa arte, ovvero la capacità di metterci nei panni dell'altro, di accompagnarlo in ciò che sta attraversando. Guardarsi negli occhi, starsi vicini, usare il linguaggio dei gesti e del contatto sono modi fondamentali di connessione interpersonale che favoriscono l'empatia. La disconnessione dalla vicinanza fisica che operiamo tramite i nostri dispositivi, invece, interrompe la corrente empatica e dunque la nostra capacità di comprensione.

[Ancora]  Nonostante i deliri di onnipotenza, la tecnica non produce vita, né relazione, né comunicazione. Per valorizzare davvero la tecnica, dobbiamo decentrarci dal paradigma tecnocratico.

Non c'è comunicazione senza uscita da sé, apertura, accoglienza dell'altro. La comunicazione è la manifestazione del fatto che tutto è connesso (Laudato Si, 16), che è la relazionalità che ci costituisce come individui. A partire da quel luogo di accoglienza e di relazione vitale che è il grembo materno. Lo scrive persino Pasolini, ricordando la “felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente”.

Come scrive ancora Borgna 'si comunica con il linguaggio delle parole, con quello del silenzio, e con quello del corpo vivente' (Parlarsi, p. 9).

La parola è vita. Il Verbo era in principio della vita.

Non c'è comunicazione dove non c'è apertura alla vita dell'altro, empatia, incontro come 'inizio vivo' (Guardini). Comunicazione e vita sono inseparabili. La vita fluisce e continua solo in quanto si comunica: viene dalla relazione, crea relazione. È solo in questo dinamismo fruttuoso la parola scaturisce con semplicità profonda, come ricorda Etty Hillesum in una pagina del suo diario: 'Si dovrebbe parlare delle questioni più gravi e importanti di questa vita solo quando le parole ci vengono semplici e naturali come l'acqua che sgorga da una sorgente'.

La comunicazione che viene dalla vita ê quella che non rimarca le differenze ma coglie le affinità che, sotto la superficie, legano tutti i viventi.

Una comunicazione che invece non ê capace di ospitare la vita si prosciuga e diventa una spada che divide, o uno strumento cinico per ottenere vantaggi.

Ci è richiesta dunque, per metterci al servizio della vita, la capacità di coltivare una fede coraggiosa, aperta, dialogante, per un umanesimo incarnato, fraterno, capace di coltivare e custodire il mondo che ci è stato donato.

Perché, come scriveva Luzi

Ci sono molti pericoli

ed insidie

disseminate da inintelligenza

e da ottusa incomprensione

Eppure, proprio in questo tempo ci è affidata una missione preziosa:

Abbiamo noi, chiesa cristiana,

nei secoli, negli sconvolgimenti

custodito il Verbo, trasmesso

integro il Vangelo,

ma noi non siamo qui soltanto

per commemorare

bensì per attuare.

Attuare sempre più preziosamente il Verbo

(M. Luzi, Opus Florentinum, p. 16)