Il vescovo Domenico: «lasciare i rimpianti e inoltrarsi verso l'inedito»

Eucaristia presso le Monache benedettina di Cittaducale 
(Ap  14, 14-19; Sl 95; Lc 21, 5-11)
“Maestro, quando dunque accadranno queste cose o quale sarà il segno che queste cosa stanno per accadere?”. L’evangelista Luca scrive dopo aver assistito alla distruzione di Gerusalemme e ha sotto gli occhi la testimonianza di cristiani come Stefano, Paolo, Giacomo che hanno pagato con la vita, così come alcuni secoli dopo accadrà anche a Caterina. Luca non intende precisare i tempi della fine, ma interpretare il senso di confusione e di caos che i cristiani vivono, pur dopo la venuta di Cristo. La chiesa della terza generazione, infatti, si trova in mezzo ai fanatici che attendono con impazienza la fine e ai delusi che si sono rassegnati e non aspettano più nulla. Tra gli impazienti e i rassegnati fa emergere l’atteggiamento responsabile dei testimoni, cioè dei martiri ‘qui e ora’. Le parole di Gesù, peraltro, non si rivolgono ad un gruppo ristretto, ma a tutti. E’ il suo addio ufficiale di fronte alla distruzione del tempio. Ma non è la fine del mondo. E’ solo la fine di un tempo. Questo va compreso anzitutto. La fine di un tempo non è la fine di tutto. Occorre prendere congedo da una pagina della storia senza rimpianti e inoltrarsi verso l’inedito. Da questo punto di vista anche le parole conclusive del brano che invitano ad uscire dalla città sotto assedio e a scappare sui monti sono emblematiche. A noi oggi suggerisce che anche la vita monastica è dentro un grande cambiamento che non significa la fine ma probabilmente solo un nuovo inizio. Se ci lasciassimo guidare da questa percezione non saremmo preda di nostalgie e soggetti a certa stanchezza. Sapremmo attraversare il guado di questa nuovo inizio che è richiesto.
L’insistenza è, dunque, sull’oggi dove si viene sfidati dal male e dai nemici che non mancano mai. Luca è esplicito al riguardo: “Voi sarete traditi perfino da genitori e fratelli, parenti e amici: e alcuni di voi saranno uccisi, e sarete odiati a causa del mio nome. Ma neppure un capello del vostro capo perirà”. E’ chiaro che qui si fa riferimento alle tensioni in seno alla primitiva comunità cristiana laddove i giudei tendevano a rifiutare la novità di Cristo. Questa tensione è vera anche oggi. La fede è oggi in crisi ma non solo per le incoerenze dei credenti, ma anche per un clima diffuso di ostilità che sembra relegare questo fenomeno ad un fatto superato, anzi addirittura pericoloso. Ciò che fa soffrire è la frequente incomprensione che porta i figli contro i genitori e scatena non delle guerre vere e proprie ma sicuramente una estraneità che rende tristi e preoccupati. Anche qui il testo di Luca invita a non pensare troppo a difendersi, ma a lasciarsi ispirare da Dio, che viene in aiuto senza che noi costruiamo in anticipo la nostra difesa. Spesso giochiamo sulla difensiva, siamo preoccupati e anche lamentosi. Ma non è questo che ci preserverà dalla irrilevanza. Giova molto di più avere quella costanza che guadagnerà la vita. La presenza di un monastero anche soltanto con la costanza della preghiera e dell’ospitalità resta oggi un segno che parla da sé di Dio, senza doverlo argomentare o giustificare. La vita quotidiana vissuta all’interno di un monastero è in grado di rendere testimonianza al Vangelo.
Infine le parole drammatiche lasciano emergere una sicurezza che affida a Dio piuttosto che alle nostra capacità la responsabilità decisiva. Ce lo lascia intendere la parola dell’Apocalisse che evoca una visione dove si parla di una falce affilata che miete quando la messe è matura. Queste immagini più che spaventare devono far fiorire una intima certezza e cioè che Dio interverrà. Non coi nostri tempi, ma con la sua infinita pazienza. A noi è chiesto solo di resistere nel frattempo, durante il tempo che ci è dato.
Chiediamo a santa Caterina che ci trasmetta un po’ della sua fede. Se il suo coraggio ci è estraneo che almeno ci doni la sua persuasione che la vita è nella mani di Dio che deciderà alla fine. L’immagine dell’ ”uva nel grande tino dell’ira di Dio” più che terrorizzare vuol rassicurare: nulla sarà lasciato al caso e tutto avrà alla fine giustizia.
Si racconta che D. Bonhoeffer avviandosi al luogo del supplizio mormorasse:  “E’ la fine, per me l’inizio della vita”. Appena il giorno prima presagendo la sua morte aveva scritto un messaggio destinato ad un suo amico anglicano, il vescovo Bell, con queste parole: “Ditegli che questa è la fine per me, ma anche l’inizio. Insieme a lui credo nel principio della nostra fratellanza universale cristiana che si eleva al di sopra di ogni interesse nazionale e credo che la nostra vittoria è certa…”