“Il coraggio di guardare”: Chiesa e scuola in sinergia per discutere di disturbi alimentari

Michela è arrivata a pesare poco più di venti chili. Ricoverata in ospedale è stata alimentata con sondino. Ma neppure questo è bastato a sollevarla dal disagio. Per rovesciare il segno della sua malattia ha dovuto intraprendere un cammino che va dal desiderio di scomparire alla volontà di contare, di restituire letteralmente peso alla propria esistenza. Un cammino iniziato con la scoperta della “Casa delle bambine che non mangiano”, ovvero Palazzo Francisci di Todi, un centro di cura all’avanguardia, specializzato nei disturbi del comportamento alimentare, dove «non ti senti giudicata, ma capita».

La sua guerra contro l’anoressia Michela l’ha raccontata durante l’incontro sui disturbi alimentari promosso dall’Ufficio diocesano per la Pastorale della Salute in sinergia con l’Ufficio scolastico provinciale. In un Auditorium Varrone gremito di studenti la giovane ha detto di come si perda a poco a poco il controllo, di come il rifiuto del cibo passi lentamente dalla scelta consapevole a un automatismo feroce e invalicabile. E di come dietro a tutto questo si agiti il desiderio di scomparire: lentamente, letteralmente.

«Aiutare gli obesi, gli anoressici, i bulimici e le persone che soffrono di disturbi alimentari a guardarsi, ad amarsi un po’, a vivere coscientemente la loro vita è un atto di amore, un amore profondo a cui come Chiesa e come Scuola non possiamo sottrarci», ha spiegato il diacono Nazzareno Iacopini, direttore dell’Ufficio per la Pastorale della Salute, introducento l’incontro formativo dello scorso 26 ottobre.

E il titolo, “Il coraggio di guardare”, apparentemente sconnesso, era quanto mai opportuno. Perché oggi come sempre la vita degli individui è governata dalla dinamica tra il mondo interiore e i modelli culturali esterni. E questi ultimi, oggi, sono spesso dettati dai media in modo netto, prepotente, feroce. Il peso e la preoccupazione per il proprio aspetto in questo senso occupano una posizione centrale. E il corpo è divenuto, in una misura forse sconosciuta in passato, il luogo in cui si giocano le battaglie dell’identità. Ce lo dice anche il fatto che i disturbi alimentari hanno iniziato a essere declinati anche al maschile: un fenomeno del tutto assente fino a una decina di anni fa. E ancora più preoccupante è il dato di patologie legate al rapporto con il cibo che iniziano a manifestarsi già nell’infanzia, coinvolgendo le bambine già tra gli 8 e i 10 anni.

Tanti casi si presentano in modo particolarmente duro e difficile da trattare perché la malattia si manifesta attraverso il corpo, ma non è il corpo ad essere malato. Michela ha spiegato come il digiuno autoimposto, il sistematico rifiuto del cibo, siano il linguaggio di un dolore psichico altrimenti muto o inascoltato. E ha lasciato trapelare quanto la ferrea rinuncia al necessario nutrimento, la disciplina che si impone sulla fame, sia mossa da un malato bisogno di controllo sul mondo.

Bene ha fatto la Chiesa di Rieti, dunque, a sollevare il problema, a escogitare un momento di attenzione, a sollecitare la prevenzione e a fornire, attraverso gli interventi scientifici, ma accessibili, di alcuni specialisti, tutte le necessarie informazioni a livello nutrizionale, culturale, psicologico ed esistenziale necessarie al contrasto dello spettro dei disagi alimentari.

Senza ovviamente rinunciare a offrire un quadro culturale e spirituale. Perché se davvero il cibo è lo specchio di ciò che siamo, la questione non può essere affrontata solo dal punto di vista materiale, biologico. A tal proposito, salutando i ragazzi dell’Auditorium Varrone, il vescovo Domenico ha ricordato che il cibo non è solo meccanico nutrimento, ma anche il luogo della condivisione e dell’allegria. «Nella società umana il mangiare è diventato da subito un elemento di differenza rispetto al mondo animale», ha spiegato, anche perché il cibo è preparato, è cultura: «non è solo il frutto della terra, ma anche del lavoro dell’uomo, più spesso della donna».

Il tempo necessario alla cucina è un’espressione della cura. Fare da mangiare è un modo di comunicare all’altro i propri sentimenti. E mangiare insieme è «diventare uno, stipulare un contratto, un’alleanza, riconoscere una prossimità, un’accoglienza reciproca, dare origine a una relazione o approfondirla, delineare un abbozzo di comunità».

«Solo se condiviso il cibo fa bene, altrimenti diventa un veleno. Per questo nella preghiera di Gesù si dice “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”». E poi il cibo è giustizia o ingiustizia: «dalla possibilità di nutrirsi o meno dipende la pace nel mondo che è spaccato tra ricchi e poveri, tra obesi e affamati».

L’universo simbolico del cibo è tale da non poter ignorare il dolore che emerge dai disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. Anche perché sono molto più diffusi di quanto si pensi: si tratta al giorno d’oggi di problemi ancora parzialmente sommersi o non riconosciuti, dei quali le persone non parlano volentieri o non parlano affatto.

La diocesi ha sollevato un velo, ma molto ancora va fatto.