«I crocifissi sono sempre in mezzo a noi»: sulla via della Croce insieme ai poveri e agli umiliati

Guardando alla croce, durante la liturgia del Venerdì Santo in Cattedrale, monsignor Pompili ha ricordato come questa fosse un «supplizio doloroso e uno stigma sociale». Al dolore dei chiodi e alla lenta agonia di una morte per asfissia, si sommava infatti l’infamia di essere esposti completamente nudi in pubblico, soggetti anche agli attacchi degli animali.

«Per reggere un supplizio così doloroso e infamante – ha ricordato il vescovo – spesso si dava ai malfattori qualche sostanza per cercare di addormentarli. Ma nel caso di Gesù, la sua elevata consapevolezza è un dato costante, dall’arresto alla morte».

Del Cristo dunque, non colpisce la quantità della sofferenza, che «non è stata superiore per quantità ai tanti poveri cristi che nella storia antica e recente sono stati violentati, torturati, venduti, svenduti». Del dolore patito da Gesù colpisce «la qualità», legata proprio alla sua «consapevolezza».

«Cristo ha sofferto nella libertà, nella solitudine, nella vergogna, nel corpo e nello spirito e da allora molti cristiani insieme con lui», ha aggiunto don Domenico ricordando che «i crocifissi sono sempre in mezzo a noi», mettendo però in guardia dal rischio di «spettacolarizzare il dolore, la morte in diretta, lo scialo di sofferenza esibita dalla curiosità morbosa, come si trattasse di un rito collettivo per esorcizzare la sofferenza».

Un rischio dal quale ci si mette al riparo contemplando il Crocifisso e chiedendosi: «so sostenere la visione di un concreto volto sofferente? Ha ancora senso la compassione? O è ormai soffocata tra indifferenza, rimozione, abitudine paura?».

Alle ore 21, l’avvio della Via Crucis, partita nella tiepida serata del Venerdì Santo dal sagrato della chiesa di San Pietro Martire per poi snodarsi per tutto il centro storico cittadino, fino a giungere in Cattedrale. Sotto la splendido fenomeno della “luna rosa” in plenilunio, la processione si forma piano, con serena partecipazione e sentito raccoglimento.

«Ci uniamo insieme a tutti coloro che in questo momento si stanno avviando dietro al nostro Papa, nella Via Crucis del Colosseo, e meditiamo sugli stessi testi, per sommare le nostre povertà alla sete di speranza e di amore», ha ripreso il vescovo Domenico dando inizio alla processione.

Una Via Crucis vissuta «unendo le nostre personali povertà» insieme a tutti i poveri, agli esclusi dalla società e ai nuovi crocifissi della storia di oggi, vittime delle nostre chiusure, dei poteri e delle legislazioni, della cecità e dell’egoismo, ma soprattutto del nostro cuore indurito dall’indifferenza. Ma anche una Via Crucis declinata al femminile, guidata dalle meditazioni incentrate sul tema “Con Cristo e con le donne sulla via della croce” scritte da suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata che di donne sfruttate, maltrattate, umiliate, ne ha conosciute e salvate a centinaia.

Affidate a lei, da tante delle sue ragazze chiamata mamma, la riflessione sulle donne schiave, una chiamata alla responsabilità per mettere fine al dramma di tante giovani, «senza volto, senza nome, senza speranza», e dunque senza alcun futuro.

Alla III Stazione, nel ricordo di Gesù che cade per la prima volta sotto il peso della croce, il silenzioso corteo reatino illuminato dalle fioche luci delle fiaccole, si ferma a ridosso del Ponte Romano, e anche i ragazzi, assiepati nel dopo cena del venerdì nei luoghi cardine della movida cittadina, si fermano un istante, e ascoltano zitti.

Ascoltano la terrificante storia di «tre africane, poco più che bambine, che in una notte gelida di gennaio, su una strada alla periferia di Roma, accovacciate per terra scaldavano il loro giovane corpo seminudo attorno ad un braciere. Alcuni giovanotti, per divertirsi, passando in macchina hanno gettato del materiale infiammabile sul fuoco, ustionandole gravemente. In quello stesso momento, è passata una delle tante unità di strada di volontari che le ha soccorse, portandole in ospedale per poi accoglierle in una casa-famiglia».

Ci si ferma a ringraziare la presenza e la generosità di tanti volontari, i nuovi samaritani del terzo millennio, che in mondo arido ed egoista ci sono, e sono tanti, e non smettono mai vivere quotidianamente «l’esperienza della strada, chinandosi con amore e compassione sulle tante ferite fisiche e morali di chi ogni notte vive la paura e il terrore del buio, della solitudine e dell’indifferenza».

«Eppure – ci si chiede insieme, prima che il corteo riparta, avviandosi verso la vicina piazza Cavour – quanto tempo è stato e sarà necessario perché quelle ragazze guariscano non solo dalle bruciature delle membra, ma anche dal dolore e dall’umiliazione di ritrovarsi con un corpo mutilato e sfigurato per sempre?»

La via della Croce prosegue e incrocia idealmente le periferie del mondo, le ferite dell’umanità e della Chiesa, le enormi responsabilità che pesano su ognuno di noi. E incontra le croci di tutti, i pesanti fardelli che gravano sulle spalle delle persone che piangono una persona cara, di quelle che assistono impotenti alla malattia di un amico o un parente, di quelle «affamate di pane e di amore», quella «delle persone sole e abbandonate perfino dai propri figli e parenti».

Ma altre croci vengono citate, ascoltate, ci si stringe intorno a quelle «delle persone assetate di giustizia e di pace», di quanti «non hanno il conforto della fede», «degli anziani che si trascinano sotto il peso degli anni e della solitudine», alla «croce dei migranti che trovano le porte chiuse a causa della paura e dei cuori blindati dai calcoli politici; la croce dei piccoli, feriti nella loro innocenza e nella loro purezza», ricorda dal Colosseo papa Francesco.

E tornano le sofferenze delle donne, narrate da voci femminili, palesemente incrinate da tanto dolore. Si abbracciano le «troppe mamme che hanno lasciato partire le loro giovani figlie verso l’Europa nella speranza di aiutare le loro famiglie in povertà estrema, mentre hanno trovato umiliazioni, disprezzo e a volte anche la morte. Come la giovane Tina, uccisa barbaramente sulla strada a soli vent’anni, lasciando una bimba di pochi mesi».

Ma sono tante le storie agghiaccianti, che squarciano i cuori in cammino. Si arriva in Duomo e si narra la terribile vicenda della piccola Favour, di soli 9 mesi, partita dalla Nigeria insieme ai suoi giovani genitori in cerca di un futuro migliore in Europa. Durante il lungo e pericoloso viaggio nel Mediterraneo, mamma e papà sono morti insieme ad altre centinaia di persone che si erano affidate a trafficanti senza scrupoli per poter giungere nella terra promessa.

Ma Favour sopravvive. Che la sua vita diventi esempio, e luce di speranza nel cammino verso un’umanità più fraterna.

foto di Paolo Cesarini

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