Fine vita: un tema difficile da affrontare senza ideologie

Un dialogo pacato, caratterizzato da posizioni anche radicalmente distanti, ma senza le asprezze che in passato rendevano difficile il confronto. Si è svolto in questo clima la seconda sessione del ricco convegno sui temi del fine vita promosso per il 7 febbraio dalla sottosezione reatina dell’Associazione nazionale magistrati e dell’Ordine forense. Dopo i lavori della mattina, dedicati agli aspetti giuridici, civili e penali, il tema della libertà di scelta sul termine della vita ha incrociato le istanze che agitano la società, interpellando il mondo della medicina, ma anche la filosofia e la fede. E non senza cercare la voce di un testimone, di chi, come Giuseppe Englaro, è stato protagonista di una lunga battaglia politica e giudiziaria, attraverso la storia di sua figlia Eluana, costretta in stato vegetativo a seguito di un grave incidente.

Sincronizzare diritto e medicina senza ideologie

A condividere il tavolo con Englaro in un’affollata Sala dei Cordari sono stati l’oncologa Maria Rosa Restuccia, esperta in cure palliative presso “Antea” Roma, il filosofo e direttore della rivista «MicroMega» Paolo Flores d’Arcais, e il vescovo Domenico, che ha espresso «profondo rispetto per i singoli casi», invitando però a non ricavarne posizioni ideologiche. Ci sono infatti malati gravissimi che vivono la propria condizione in modo diametralmente opposto. Secondo mons Pompili è semmai necessario estendere l’ascolto verso tutte le persone coinvolte in situazioni analoghe, perché a partire da un unico caso si rischia di perdere il necessario «senso dell’universale, che ci aiuta ad affrontare una questione così delicata». Soprattutto quando ci si rende conto di avere a disposizione normative inadeguate rispetto alle possibilità della medicina, che dispone di «capacità inimmaginabili fino a pochi anni fa». È infatti nel fare i conti con l’anacronismo della normativa rispetto alla tecnica che si comprende appieno il dramma profondo di tante situazioni.

Tre forme di ascolto

Ogni possibile miglioramento nei discorsi sul fine vita, secondo il vescovo richiede un impegno che include tre forme di ascolto. La prima è quella nei riguardi delle persone che vivono in prima persona le situazioni difficili: un ascolto che deve comprendere anche le famiglie dei malati perché aiutino a capire esattamente quello che vogliono. Non è cosa banale, perché nel decidere «ora per allora» si percorre «una distanza infinita». Tutti infatti facciamo esperienza, nel viverle in prima persona, di come le situazioni possono cambiare le nostre opinioni e decisioni.

Il secondo ascolto è quello della classe medica, che ha gli strumenti rispetto a una conoscenza che cresce vertiginosamente, e «sulle cure palliative fa progressi enormi». Anche qui si incontrano però nodi da sciogliere, perché occorre capire quando i trattamenti sono proporzionati, oltre quale limite si può parlare di accanimento terapeutico, quando l’esercizio medico diviene eutanasia.

L’ultima voce da ascoltare, «siamo noi stessi». Se il tema è così sentito e polarizzato nella discussione, infatti, è perché «parla di noi, del nostro rapporto con la vita e la morte».

Guardare alle conseguenze

Ciò detto, il vescovo ha invitato a tenere conto di tutto quello che la legge produce nei termini del rapporto tra libertà e dignità, tenendo conto delle situazioni più fragili. I singoli casi non possono essere assunti come fonte del diritto perché «la cultura dello scarto» espone a chine pericolose. Un argomento contestato da Flores D’Arcais, secondo il quale è proprio la legge a evitare le chine pericolose, perché stabilisce i confini di intervento, le condizioni per accertare che la decisione sia libera e reiterata. L’esperienza normativa di altri Paesi evidenzia «clausole molto stringenti per capire che non si è davanti a un momento di disperazione, ma di fronte a una decisione irreversibile».

Il punto di vista del filosofo parte da una domanda: «per il tuo fine vita preferisci decidere tu o un estraneo che magari è mosso da valori opposti ai tuoi?». Sul punto, ha notato Flores D’Arcais, «c’è unità: nessuno vorrebbe che sul suo fine vita possa scegliere un altro. Tutti preferiscono scegliere da sé e la legge non dovrebbe fare altro che trascrivere questa volontà unanime». Un argomento che dovrebbe restare valido anche quando si tratta di rifiutare le cure, compresi i casi in cui si dà voce a chi non è più in grado di esprimere la propria volontà.

I limiti dell’autodeterminazione

Anche su questo mons Pompili ha però invitato ad essere prudenti: «L’idea dell’autodeterminazione è uno dei miti moderni. Pensare che ognuno si decida da solo, prescindendo dai condizionamenti del contesto, è un mito. Noi siamo un insieme di relazioni». La questione secondo il vescovo è nel modo in cui si combinano le scelte individuali con la dinamica sociale che le deve portare a compimento. Il nodo irrisolto dell’autodeterminazione sta proprio nel rapporto tra diritti individuali e doveri sociali. «La percezione dell’autonomia in forma “sovranista” ci mette in un vicolo cieco; l’autonomia personale, quando ci sono condizioni si insicurezza, solitudine e abbandono, potrebbe non essere il più affidabile dei criteri. Siamo realmente sicuri che quello che decido oggi sia quello che penserò domani? Bisogna vedere le persone abbandonate a se stesse, capire quando la domanda del suicidio chiede il suo esatto contrario».

Quello invocato dal vescovo è un principio di precauzione che non fa appello a Dio, ma pone la discussione sia sul piano razionale, senza coinvolgere la fede: «La distinzione non è tra dimensione laica e religiosa, ma tra una concezione autonoma e una eteronoma». È vero che occorre una legge sul fine vita, ma «il punto discriminante è quello di dotarci di strumenti per distinguere tra queste due condizioni. Il suicidio assistito pone qualche domanda. Altra cosa è parlare del trattamento sproporzionato e riflettere sui problemi aperti dalla nuove possibilità della medicina».

Un dibattito da proseguire

Il dibattito, proseguito anche con domande e interventi del pubblico è stato davvero ricco e propositivo. E l’augurio del vescovo è stato quello che il dialogo possa proseguire per condurre a una buona legge, che consenta attraverso il concorso di tutti di superare i punti controversi. In parallelo, occorrerà insistere molto più efficacemente sulle cure palliative, che oggi sembrano la questione più urgente da affrontare. «Nonostante tante parole – ha detto il vescovo – sappiamo bene che negli ospedali ci sono problemi quando si ha bisogno di certi medicinali. Conosco per esperienza diretta oncologi che non riescono a soddisfare le richieste di tanti pazienti a causa dei tagli. E trovo un’indicazione interessante constatando che molti oncologi concludono la propria esperienza di medico dedicandosi alle cure palliative».