Conversione, libertà e cura: tre chiavi per seminare speranza

Anche quest’anno le Figlie di santa Filippa hanno festeggiato la ricorrenza della memoria della fondatrice. Le restrizioni conseguenti la pandemia non hanno però permesso di vivere la ricorrenza con un programma ricco come è sempre stato negli anni passati. Nei giorni attorno al 16 febbraio, dunque, non ci sono stati convegni, incontri e spettacoli. E anche per la liturgia, si è preferito ricordare la baronessa santa nella vicina prima domenica di Quaresima, durante dell’Eucaristia presieduta dal vescovo Domenico.

Guardando alle difficoltà del momento, monsignore ha colto in un passo della Genesi un’indicazione di speranza: Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. «L’arco – ha spiegato – è l’arcobaleno che evoca il sereno dopo la tempesta. È un segno di riconciliazione tra Dio e l’umanità, dopo il diluvio universale». Una prospettiva di ripresa a fronte di un evento naturale avverso e incontrollabile, com’è un’alluvione, o anche una pandemia. Eventi che attengono alla condizione umana, richiamata anche dall’immagine del deserto. Un luogo in cui Gesù è tentato da Satana, ma al tempo stesso, stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. «Satana – ha spiegato don Domenico – divide e pone l’umanità ogni volta di fronte ad un bivio: alimentare la contrapposizione o tendere all’unità? Smettere o ricominciare? Seminare sfiducia o coltivare speranza?».

Una risposta l’ha offerta già nel Medioevo proprio santa Filippa, attraverso un suo originale “cristianesimo al femminile”, «che è la parte dell’arco che dobbiamo ricomporre anche oggi». Del suo carisma mons Pompili ha citato tre caratteristiche: «la riscoperta della conversione, il linguaggio del corpo, la presa di parola». Il primo tratto è un segno di modernità: è «la consapevolezza che non esiste solo il percorso tradizionale del monastero dalla più tenera età, ma che si dà la possibilità di una conversione». Subisce dunque una smentita «l’abbinamento tra verginità e perfezionamento perché si dà la possibilità di ricominciare. Come la Maddalena. Oggi, del resto, chi sceglie la vita religiosa, lo fa a partire da storie di capovolgimento radicale che è l’esatto contrario della scontata vita di una “monaca di Monza”!».

«Il linguaggio del corpo – ha aggiunto il vescovo – fa presa sul fatto che il Monastero era per una donna del XIII secolo il solo modo per conservare il dominio del proprio corpo e per affermare la propria libertà rispetto al gruppo familiare. Infine, la presa di parola dice che le donne cominciano ad avere rilievo pubblico e a decidere delle condizioni anche politiche. Contribuendo in molti casi allo sviluppo e alla coesione sociale».

Tutti valori ancora oggi testimoniati dalle figlie di Santa Filippa, alle quali, ha detto monsignore, dobbiamo dire grazie per almeno tre ragioni: «Perché costituiscono l’appello ad una vita che può sempre cambiare e migliorare. Perché con la libertà della loro scelta fanno capire che non si può solo replicare la famiglia, ma occorre andare oltre. Perché la loro maniera di parlare e di agire fa appello alla cura e alla tenerezza, di cui c’è sempre bisogno».