«Chi è Gesù per me?». La domanda da cui dipende tutto il resto

(Is  50, 5-9a; Giac  2, 14-18; Mc, 8, 27-35)

“Ma voi chi dite che io sia?”. Gesù non ama i sondaggi come certuni che al mattino consultano il grado di gradimento popolare e in base ai riscontri decidono il da farsi. Lui se ne infischia della popolarità, ma ci tiene a che ciascuno prenda posizione di fronte a lui. Per questo incalza i suoi discepoli perché passino da una generica opinione ad una personale convinzione.

Anche per noi vale sempre questa domanda: “Chi è Gesù per me?”. Non sono ammesse risposte frettolose né tantomeno imparaticce. Conviene fermarsi un momento e provare ad interrogarsi sul serio perché questa è la domanda da cui dipende tutto il resto. Non c’è da stupirsi se perfino i discepoli restano interdetti dalla domanda perché il mistero di una persona è sempre sfuggente, tanto più quando si ha a che fare con il profeta di Nazareth. Ciò che conta è lasciar crescere in noi questa interrogazione senza accantonarla subito con una risposta preconfezionata, o addirittura, evitarla per non correrne il rischio.

Pietro sembra rispondere d’istinto, ma in realtà parla sotto l’ispirazione stessa di Dio che gli permette di affermare: “Tu sei il Cristo”, cioè tu sei il Messia atteso da sempre da Israele. Ma si capisce subito che la correttezza della risposta non corrisponde alla sua comprensione perché Pietro quando Gesù lascia intendere che tipo di messianismo è il suo lo rifiuta categoricamente. Proprio non ci sente da quell’orecchio! Al punto che il Maestro lo rimprovera apertamente definendolo “Satana”, cioè l’Avversario, colui che intralcia ed ostacola la strada. Infatti “se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo la salverà”.

Ecco il punto che deve forzare l’orecchio di Pietro (cfr I lettura di Isaia: ”Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio…”). Non basta dire di credere se non si assume la mentalità del Signore che va a Gerusalemme perché deve portare fino in fondo la sua missione attraverso la strettoia della pasqua di morte e di resurrezione. Credere a chi sostiene che il fallimento e l’insuccesso accettati per amore possano essere una via di salvezza cozza contro il nostro istinto. Ma qui Gesù lascia intendere che chi vuol stare con Dio e non si fa carico delle conseguenze del male e della sofferenza umana non può dirsi credente. Portare la croce non è solo accettare le nostre fatiche quotidiane, ma sentire come una responsabilità i problemi degli altri. Non bastano le parole di vicinanza, ci vogliono dei fatti, come suggerisce Giacomo nel frammento della sua lettera: “Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta”.

C’è almeno una situazione che mi viene in mente in cui mettersi tutti sulla strada della responsabilità. Domani riapre la scuola che in antico veniva chiamata otium per distinguerla dal negotium, cioè la coltivazione dell’essere rispetto all’incremento dell’avere. È una questione che riguarda tutti, perché laddove cresce il livello dell’istruzione si consolida la possibilità di crescita delle famiglie, dei ragazzi e dei docenti. L’importante è che ciascuno per la propria parte senta di farsi carico di questa realtà al netto della crisi, delle inadeguate situazioni strutturali, dei problemi degli organici. La vera domanda, infatti, che dovremmo porci non è tanto quella che dice: “Che mondo lasceremo ai nostri figli!”. Ma piuttosto questa: ”Che figli lasceremo al mondo?”.

Non possiamo fermarci alle parole e alle buone intenzioni. La fede non è mai evasione o fuga dal presente, ma sempre ci fa immergere nella realtà. Con una consapevolezza e una determinazione che ci fanno vincere l’apatia che spesso è l’anticamera della rassegnazione e dell’autocommiserazione. Ciascuno può fare la sua parte. Senza dimenticare quello che un grande educatore come don Milani, affermava volendo distinguere l’influsso dei media dettato da ragioni economiche e commerciali da quello della scuola: “È appunto qui che si distingue il maestro dal commerciante. Dicesi commerciante colui che cerca di contentare i gusti dei suoi clienti. Dicesi maestro colui che cerca di contraddire e mutare i gusti dei suoi clienti”.